Emerils Delmonico A New Orleans Restaurant With A Past 1st Ed Emeril Lagasse
Emerils Delmonico A New Orleans Restaurant With A Past 1st Ed Emeril Lagasse
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È un gridoumano, che cuopre e soffoca tutti i melodici sospiri per
tutte le Laure dei cento Canzonieri italiani.
Se la parte scolastica e scientifica della Divina Commedia ci
apparisce un po' come natura morta, tutta la parte umana e poetica
è immortalmente giovine e viva: perchè la scienza è progressiva, e
perciò ha sempre un valore relativo, — ma la Poesia (la vera Poesia)
è assoluta, e perciò inalterabile. Copernico offusca Tolomeo, Cuvier
eclissa Buffon, Darwin eclissa Lamarke, — ma Dante non scema d'un
raggio l'aureola sfolgorante d'Omero — nè Shakespeare attenua di
un grado la gloria sovrana di Eschilo. Nè tutti gli splendori del
Rinascimento, dal Petrarca all'Ariosto, nè tutta la grande poesia
moderna da Goethe al Leopardi, offusca minimamente la gloria
trascendentale della Divina Commedia.
VI.
Il Savonarola è una grande anima, e un vero poeta — ma è più gran
poeta in molte sue prediche, che nelle vere e proprie Poesie.
Nonostante, anche in queste, benchè scorrette, neglette di forma,
circola un'aura, un soffio potente, come un'eco ancor calda delle sue
ardenti perorazioni, delle sue tragiche visioni, delle sue formidabili
apostrofi: ma talvolta, e non di rado, vi son note semplici, fresche,
quasi festose, come in questi versi sul Natale, che sembran
preludere nella loro ingenuità ai due inni immortali del Milton e del
Manzoni.
Venite, Angeli santi.
E venite suonando;
Venite tutti quanti
Gesù Cristo laudando,
E gloria cantando
Con dolce melodia;
Ecco il Messia — ecco il Messia
E la madre Maria.
7.
Venitene, Profeti
Che aveteprofetato,
Venite tutti lieti;
Vedete ch'egli è nato,
Il picciolin Messia!
Pastor pien di ventura,
Che state voi a vegghiare?
Non abbiate paura;
Sentite voi cantare?
Correte ad adorare
Gesù con mente pia.
I Magi son venuti
Dalla stella guidati,
Con lor ricchi tributi.
In terra inginocchiati.
Quanto son consolati
Adorando il Messia!
Altre volte, nell'ardore della preghiera, ha qualche cosa di
petrarchesco come in questa strofa:
Apri, Signore, il tuo celeste fonte;
Quella tua dolce vena
Che Maria Maddalena
Trasse di basso loco all'alto monte,
Con l'anima serena
Piena di raggi e di splendor divino.
Pietà, Signor, di questo peregrino!
Amor giovine, deplorò le umane rovine della Chiesa e le morali
rovine del Mondo, con versi potenti. La Chiesa di Cristo,
Povera va con membra discoverte,
8.
I capei sparsie rotte le ghirlande:
Scorpio la punge ed angue la perverte.
E così va per terra
La coronata, e le sue sante mani....
Bestemmiata dai cani
Che van truffando sabbati e calende....
Le Poesie sacre del Savonarola, a differenza di quelle di Feo Belcari e
del Benivieni, accennano o confermano il concetto d'una Riforma
Cattolica, già prenunziata da Dante. E in alcune strofe si mostra
anche artista. Nonostante il falò delle vanità, nel quale è a deplorarsi
l'eccesso che pur vi fu, egli aveva vivo il sentimento dell'Arte. Fondò
una scuola di pittura nel suo stesso Convento, ove lavorò Fra
Bartolomeo, fu agli artisti e ai letterati consigliere e ispiratore, fu
intimo amico di Pico della Mirandola e inaugurò con lui gli studi
ebraici e orientali — e il genio dei Profeti e di Dante che era in lui, lo
comunicò a Michelangiolo, e palpita ancora immortale alla volta e
alle pareti della Sistina. Non facciamo dunque del grande oratore e
del grande riformatore, un Erostrato selvaggio e un frate ignorante.
Egli fu in Italia la più gran coscienza morale del secolo XV, come
Dante lo era stato del XIV, e come Michelangiolo lo fu del XVI.
L'ardore con cui il santo monaco fuse insieme i sentimenti di
patriottismo e di morale nel popolo di Firenze, non si spense con lui
— e i suoi migliori effetti si videro rifulgere nel memorabile Assedio
degli anni 1529-30. Il soffio vulcanico del grande oratore che ispirò il
poema della Giustizia dipinto nella Sistina da Michelangelo, animò
egualmente la tragedia della Libertà combattuta a Gavinana da
Francesco Ferruccio.
La sua fede eccitava il suo entusiasmo, il suo entusiasmo faceva la
sua forza. Nessuno, o Signori, è diventato martire per una opinione:
la fede sola fa i martiri. Egli credeva e vedeva, e tuonava dal
pergamo le sue visioni. Chiamatelo pure un fanatico. Era fanatico
come Ezechiello, come Geremia, come Arnaldo, come Demostene,
come Dante, come Mirabeau, come O'Connell — come tutti quelli
9.
che hanno comunicatol'elettricismo d'una parola di fuoco. Era un
malato?... Forse. Ogni vera creazione produce uno spostamento, un
disequilibrio. Se gli eroi, i martiri, i grandi poeti son tutti malati —
consoliamoci — non c'è mai stata tanta salute come oggi, in Europa!
Le più ammirabili prediche del Savonarola, come ben nota l'illustre
Villari nel suo classico libro, son quelle su i Salmi: e quella dove
l'impeto lirico è sommo ed unico, dove il Savonarola è veramente
poeta, e gran poeta, è la predica-visione dei flagelli d'Italia. Il Cielo
stesso combatte; i Santi, gli Angeli spingono i barbari vendicatori.
Son loro che li hanno chiamati, che hanno messo le selle ai cavalli, e
affilate le spade. E il diluvio degli stranieri, il gran gastigo italico,
comincia. Dove andiamo? San Pietro grida: A Roma! a Roma! San
Giovan Battista e Santo Antonino: a Firenze! E San Marco: là verso la
città superba e voluttuosa, che inalza le sue cupole d'oro sovra le
acque!
La impressione che riceviamo anche oggi, dopo quattro secoli, e alla
semplice lettura, da questa predica, è solo paragonabile a ciò che
proviamo al primo ingresso nella Cappella Sistina. Vi ricordate? Un
fremito, un tumulto, corre sulle pareti. Non si sa dove riposare lo
sguardo. Da tutte le parti, visi minacciosi, e pianti disperati.
Ezechiello si volta impetuosamente, in furiosa disputa con un Angelo.
Geremia appoggia l'enorme testa sulle mani, come schiacciato dal
peso di tutti i dolori di Gerusalemme. La Libica si alza terribile, con in
mano il gran libro dei fati. La Persica legge con occhi ardenti. Daniele
scrive tremando. Qua, il tronco di Oloferne versa una fiumana di
sangue; là, gli adoratori degli idoli si contorcono, ignudi, sotto i morsi
dei serpenti divoratori. Madri spaventate urlano e fuggono,
stringendo al seno i bambini. Un altro vede passare in uno specchio
visioni così terribili, che indietreggia atterrito, e batte la spalla nella
muraglia. Par di sentir ruggire di lontano il tuono della vendetta
divina. La Giustizia e il Giudizio — riparatore e vendicatore —
respirano da ogni angolo della tremenda Cappella.
In quegli anni tragici e sinistri di saccheggi e di incendi, di orgie e di
tradimenti, Michelangelo, che doveva assistere ai funerali della
10.
libertà e dell'Italia,si ricordò soprattutto del Savonarola, e leggendo
assiduamente i Profeti, Dante, e le Prediche e le Liriche del
Ferrarese, dipinse i Profeti, e scolpì la Notte, la Notte d'Italia.
In una delle sue ultime prediche, il Savonarola, presago dello
imminente martirio, disse queste parole: “O Signore, io non tengo
modi di cercar gloria umana. Io non voglio cappelli, nè mitrie piccole
o grandi. Non chieggo se non quello che tu hai dato ai tuoi Santi —
la morte. Un cappello rosso, un cappello di sangue, questo desidero.
„
E l'ebbe. E prima, le agonie dell'infame processo, i dubbi e i terrori,
la fune che gli slogò tutte l'ossa, le tenebre della segreta, le smanie
e gli scoramenti, e i sudori di sangue dell'eterno Getsemani....
Fu allora che in un momento di tregua, in un'ora di grazia e di
respiro, — fra la tortura e il rogo — compose un salmo sublime, che
il Tommaseo ammirava tanto, e tradusse.
Eccone alcuni versetti:
Conoscerò dunque, fra poco, Voi, o mio Dio, conoscitore di me.
O mio consolatore, mostratevi a me finalmente;
Siatemi adiutore — non mi lasciate.
Perchè il padre e la madre mia mi lasciarono....
Ma il Signore misericordiosamente mi assunse.
Non mi date alle animosità di quei che mi tribolano,
Poichè insorsero contro me testimoni iniqui — e l'iniquità mentì a sè
medesima.
Sospeso dal laccio infame sul rogo, e non ancor morto, il Savonarola
potè forse vedere le mani impazienti e furiose del popolo, appressare
le torce accese alla catasta già sparsa d'olio e bitume; mentre altre
mani scagliavano una pioggia di sassi su quel volto tante volte
illuminato dalla luce del genio e dalla santità della vita.
Ah! da quando insultò Socrate, e preferì ad alte grida Barabba a
Gesù; al giorno in cui sputò in faccia a Bailly e imprecò a Madama
11.
Roland moritura —la plebe ingannata e pervertita, o abbandonata al
cieco istinto bestiale, ha sempre applaudito all'eccidio dei suoi più
insigni benefattori.
VII.
Come il lato sofistico del Paganesimo era stato il consacrare la
natura umana anche nella sua parte cattiva — il lato sofistico del
Cristianesimo medievale fu di gettare un anatema troppo assoluto su
la Natura, di vivere come lo Stilita sospesi tra il Cielo e la Terra,
guardando a quello con estasi, a questa con un sacro terrore. Il
centro della Idealità fu spostato nel Rinascimento; e al culto del
Dolore spirituale, successe l'apoteosi della plastica Bellezza e della
Euritmia. Ma tra le voci armoniose e pagane, dura anche nel
Quattrocento qualche eco della grande, triste e patetica poesia del
Cattolicismo. Oltre il Savonarola, vanno ricordati il Benivieni e il
Belcari. Il primo essenzialmente lirico, drammatico e trovatore di
patetiche situazioni, efficaci, nella loro ingenua espressione. Basti
rammentare le parole d'Isacco al padre che sta per sacrificarlo.
Nella lirica satirica si distinsero il Cammelli e il Burchiello: ma il loro
più gran merito consiste forse nella visibile influenza che ebbero
sull'ammirabile genio del Berni.
Un soffio veramente lirico spira in alcuni canti epici del rude e
possente poeta Luigi Pulci. La sua morte di Orlando è semplice,
patetica, e tocca il sublime. E forse Alfredo Tennyson l'ebbe in
mente, quando descrisse, negli Idilli del Re, la Morte di Arturo.
Nelle stanze narranti la catastrofe cavalleresca, Roncisvalle, e la
morte del gran Paladino, è commisto in modo mirabile l'elemento
lirico all'epico:
Così tutto serafico al ciel fisso
Una cosa parea trasfigurata,
E che parlasse col suo crocifisso....
12.
Il cielo certoallor s'aperse....
E come nuvoletta che in su vada,
In exitu Israel, cantar, de Egipto
Sentito fu, dagli Angeli solenne
Chè si conobbe al tremolar le penne.
Poi si sentì. . . . . . . .
Certa armonia con sì soavi accenti,
Che ben parea d'angelici istrumenti.
Versi che certo rammentava l'Ariosto quando cantò con la magia che
gli è propria:
E voci e suoni d'angeli concordi
Tosto in aria s'udîr che l'alma uscìo
La qual, disciolta dal corporeo velo,
Fra dolce melodia salì nel cielo.
Arriva Carlo Magno e benedice al morto Paladino e gli richiede la
spada Durlindana.
Io benedico il dì che tu nascesti,
Io benedico la tua giovinezza.
Io benedico i tuoi concetti onesti,
Io benedico la tua gran prodezza.
E se tu hai di me nel ciel mercede,
Come solevi al mondo, alma diletta,
Rendimi se Dio tanto ti concede,
Ridendo, quella spada benedetta.
. . . . . . . . . . . . . .
Come a Dio piacque, intese le parole,
Orlando, sorridendo, in piè rizzossi;
Con quella reverenza che far suole,
E innanzi al suo Signore inginocchiossi,
E poi distese, ridendo, la mana,
E resegli la spada Durlindana.
13.
. . .. . . . . . . . . . .
Carlo tremar si sentì tutto quanto
Per maraviglia e per affezione,
E a fatica la strinse col guanto....
Ma il personaggio più magneticamente poetico del Quattrocento,
quello la cui vita è una vera lirica di bellezza, di aspirazioni e di
entusiasmi, è Pico della Mirandola: e non vi dispiaccia, o Signori, che
io concluda col suo simpatico nome, questi miei rapidi cenni su la
poesia del Quattrocento.
Marsilio Ficino ci ha narrato come lo vide la prima volta in Firenze.
Era il 1480, l'anno in cui il Ficino aveva compiuto la sua grande
opera, la traduzione di Platone. Una bella giornata di settembre,
verso l'ora del tramonto, il dotto ellenista meditava nel suo studio. La
lampada votiva che egli teneva accesa dinanzi al busto di Platone
brillava vivace nella languente luce vespertina. Entrò un giovane alto
e bello, dagli occhi grigio-cerulei, dai capelli di un biondo acceso,
scendentigli sulle spalle sotto un berretto di velluto nero: vestiva una
cotta di raso violaceo, listato d'argento: aveva al collo la collana
d'oro di Principe. Era Giovanni Pico della Mirandola.
Parlarono di filosofia — di Platone, naturalmente. E il giovine Principe
suggerì al vecchio filosofo di tradurre Plotino, il mistico panteista
dell'Antichità. Parlò dell'Oriente; il mio Oriente, diceva, l'alma mater
d'ogni scienza e poesia. Parlò della Bibbia e del Cristianesimo, di un
Cristianesimo eterno, indistruttibile, conciliabile col Platonismo. Parlò
dell'Uomo, che è un piccolo Mondo, una sintesi portentosa e divina,
“dov'è, diceva, l'essenza angelica e il senso del bruto, e la vegetale
anima delle piante, e il fuoco e il mercurio„. Disse al Ficino di un
Commento che intendeva fare alla Canzone del Benivieni su l'Amor
divino: e ne discorse con una stupenda profusione di immagini
colorite e poetiche, prese dall'Astrologia, e dalla Cabala, da
Salomone e da Omero.
E la notte calava sulle grandi vetrate dello studio, e la lampada
votiva illuminava il marmoreo volto di Platone e i capelli d'oro di Pico.
14.
Era allora pocopiù che ventenne: ma avea già provato le tempeste
della passione e n'era restato disilluso, e abitualmente un po' mesto.
Aveva scritto molti versi d'amore, e gli aveva, un giorno, tutti
bruciati. (Grande e raccomandabilissimo esempio!...) Aveva
viaggiato, visto uomini e cose. Veniva ora a Firenze, attratto dalla
fama del Magnifico Lorenzo, e dall'amicizia per il Ficino.
Una bellissima bruna, una ardente Savonaroliana, soprannominata la
profetessa, Camilla Rucellai, s'innamorò perdutamente di lui.... ma
non fu corrisposta. La irrequieta curiosità teologica e scientifica, la
triste sazietà dei piaceri, preservarono Pico da nuove passioni. La
Rucellai gli predisse che sarebbe morto al tempo dei gigli.... E il
giorno che Pico della Mirandola spirava tra le braccia del Savonarola,
Carlo VIII entrava in Firenze preceduto dalla bandiera con li aurei
gigli di Francia. Fu sepolto in San Marco. Aveva 32 anni. I
contemporanei lo chiamarono la Fenice degli ingegni. Per noi è una
Fenice soprattutto in questo, che fu un Erudito poetico. Non si è
visto ancora il secondo.
Sapeva e scriveva il greco, l'arabo, l'ebraico, il caldaico. All'età di
ventisette anni, trasse dai suoi immensi studi novecento tesi di fisica,
filosofia, teologia, astronomia, magia naturale, comprendenti quasi
tutto lo scibile del suo tempo, e le pubblicò in Roma, proferendosi
pronto cavallerescamente a sostenerle contro chiunque osasse
oppugnarle. Poeta e filologo, filosofo e mistico, ebbe un'ardente
curiosità dell'ignoto, del miracoloso, intravedendo e indagando il
Soprannaturale nell'intima essenza del Naturale; come Leonardo,
Paracelso, Fichte, Novalis, Carlyle. Simpatizzava con tutto quello che
le morte generazioni hanno sinceramente e passionatamente
creduto: e studiava, rievocava, resuscitava le antiche mitologie.
Vedeva in esse l'eterno Io dell'umanità, vi leggeva un motto del
grande Enimma. Egli disse pel primo la feconda parola: in ogni fede,
è una parte di verità.
La sua teoria è essenzialmente poetica e consolante, e rammenta la
teoria Browninghiana. — Tutto quello che rettamente si volle e
nobilmente si amò sulla Terra, non andrà mai perduto. Dovremo
15.
traversare altri mondi— molto avrem da imparare, molto da
dimenticare, ma quel momento verrà. Tutto quello che ardentemente
aspiravamo ad essere, e non potemmo essere su la Terra, ed a cui
pure ci sentivamo chiamati; tutto ciò che era in noi e che il mondo
ignorò, la poesia muta, l'amore represso, il momento fatale perduto,
tutto avrà un giorno, altrove, sviluppo e trionfo. Pico della Mirandola
serbò intatte, nel suo poetico naturalismo, la coscienza individuale, e
la libertà morale dell'anima umana. Nel suo trattato De Hominis
dignitate, scrisse queste belle e memorande parole: “I bruti sono
eternamente bruti, gli angeli, essenze angeliche eternamente. Tu
solo, o Uomo, puoi degenerare fino a divenire un bruto, e rigenerarti
e sollevarti fino a parere un Dio. Tu solo hai un incessante sviluppo;
tu solo porti in te i germi di ogni specie di Vita.„
Se Pico della Mirandola distrusse i suoi versi, restò poeta nella vita,
nel sentimento, nell'intelletto. Nè mi è parso inopportuno parlare di
lui, in una lettura su la poesia del Rinascimento. Per esserne il più
poetico simbolo, non gli è mancato nulla. Ha avuto l'ingegno, la
dottrina, la bellezza, la gioventù, la nobiltà, l'entusiasmo, la morte
precoce; e finalmente un certo mistero che avvolge il suo nome, la
sua vita, e tutti i suoi scritti.
16.
L'ORLANDO INNAMORATO
DEL BOIARDO
DI
PIORAJNA.
Scommetto, signore e signori miei, che se fossi mago — che pur
troppo non sono — e avessi la virtù di far qui comparire a un vostro
cenno tutti i poeti che vi venisse la curiosità di vedere, la sala
correrebbe un gran rischio di essere stipata prima che a Matteo
Maria Boiardo fosse concesso di trovarsi in mezzo a un'accolta di
persone, tale da richiamarlo a' suoi giorni più belli. Gli è che il nome
suo vi s'offrirebbe offuscato da un altro: quello di Lodovico Ariosto. E
c'è di peggio. Il Boiardo della tradizione comune ha come l'aria di un
somarello dal pelo arruffato, pieno di guidaleschi, che se ne va
trotterellando alla meglio, indegno di attirare gli sguardi, finchè un
buffone — Francesco Berni mi scusi, — non è còlto dal ghiribizzo di
balzargli sul dorso, e, messolo a corsa a forza di scudisciate, non si
dà ad eseguire su quella cavalcatura ogni sorta di smorfie e
capestrerie. O chi mai deve dunque impacciarsi di richiamare
dall'eterno riposo un'ombra cosiffatta?
Chi? — Voi per l'appunto: dopo che vi siate presi la cura di conoscere
meglio cosa sia per davvero l'Orlando Innamorato, o Innamoramento
d'Orlando che si voglia dire; una cura che, avendo me a guida,
riuscirà forse una fatica e una noia; ma che fatica e noia non
17.
sarebbe, se, mandatoa farsi benedire l'incomodo mediatore, apriste
il libro voi stessi e vi deste a legger senz'altro.
Per il momento son qui, e bisogna che mi tolleriate. Ed io dal mio
canto, volendo adempiere coscienziosamente l'ufficio a cui mi son
sobbarcato (povera coscienza, come si strazia in tuo nome!), son
costretto a risalir molto indietro. L'Orlando Innamorato — dicono i
barbassori — non si può giudicar bene senza essere prima informati
della sua schiatta; e questa schiatta è disgraziatamente antica assai.
Sicuro: ci si perde in un lontano passato, e in un passato non nostro.
Tutti sanno oramai di una epopea rigogliosa fiorita nella Francia del
medio evo e dissepolta pietosamente da sessant'anni in qua. Essa
accompagnò la vita francese dai primordi fino a un'età molto tarda.
Nata di sangue germanico, ma fattasi presto romana, cantò i fatti e
gli eroi del periodo merovingio, poi quelli del carolingio, e serbò
ancora abbastanza fiato perchè, due e più secoli dopo, al tempo
delle crociate, potesse mettersi alla bocca la tromba.
Quanti personaggi si trovò così a celebrare! Ma tra gl'infiniti, taluni,
per motivi interni ed esterni, vennero a prevalere. Primo fra tutti
Carlo Magno, il sovrano per eccellenza. E accanto a lui Orlando, del
quale la morte stoicissima al passo di Roncisvalle fece l'ideale del
guerriero valoroso e del vassallo devoto. In Rinaldo invece e in certi
altri si possono veder personificate le doti meno corrette, ma spesso
più simpatiche, del barone ribelle; ribelle nondimeno ai soprusi, non
all'esercizio legittimo dell'autorità.
Nella sua forma schietta e genuina questa epopea francese è poesia
severa, profondamente patriottica, ardentemente cristiana,
fieramente guerresca. Ma se il patriottismo, la religiosità e lo spirito
bellicoso eran troppo connaturati con essa per venir a mancare, la
severità invece dovette via via ceder terreno di fronte al bisogno di
andar a sangue a un pubblico mano mano più desideroso di svago:
simile al pubblico d'una conferenza! Così l'epopea si veniva
convertendo in romanzo: metamorfosi da non poter mai riuscire
perfettamente, nel territorio almeno a cui l'epopea appartiene per
nascita. Getti pur lontano quanto vuole la sua tonaca, poco o tanto il
18.
frate resterà semprefrate. Quindi, se le chansons de geste
continuarono ad appagare esuberantemente il gusto, facile sempre,
delle classi popolari, il palato dei signori trovò col tempo maggior
piacere in altri cibi. E i cibi furono svariati; ma il più gradito fra tutti
fu quello offerto in gran copia dalle narrazioni costituenti la
cosiddetta Materia di Brettagna, o il Ciclo d'Artù e della Tavola
Rotonda. Straniero di origine, e però non vincolato o frenato da
nessun obbligo o tradizione, questo ciclo potè volgersi liberamente a
sodisfare ogni tendenza e desiderio di quella società cavalleresca alla
quale s'indirizzava, parte, svolgendo gli elementi portati con sè della
patria, e più assai trasformando e introducendo di nuovo. Ne uscì un
mondo fantastico, nel quale il meraviglioso — prima causa, se non
erro, della fortuna brettone — s'incontra a profusione; dove i
guerrieri se ne vanno errando soletti, o quasi, per regioni
solitamente boscose, sconosciute affatto a loro medesimi,
incontrando di continuo l'inaspettato; dove al posto della guerra s'ha
il duello, il torneo e l'“avventura„; dove insieme col valore regna la
cortesia; dove la donna, relegata in un cantuccio dall'epopea
carolingia, è messa in trono, e con essa — occorre mai dirlo? — è
messo in trono l'amore; un amore che cura ben poco le istituzioni
sociali, sicchè si compiace segnatamente delle due coppie adultere di
Tristano ed Isotta, di Lancillotto e Ginevra.
Dalla Francia così l'epopea nazionale come la materia di Brettagna si
propagarono all'Italia. L'epopea se ne dovette venire fino da un'età
molto antica; oserei quasi dire già in quella stessa di Carlo Magno.
Quanto alle narrazioni brettoni, giunsero a noi più tardi; eppure,
lasciando stare certi indizi che ci riporterebbero nientemeno che al
cadere del secolo XI, è certo che nel XII si divulgarono largamente.
La fortuna dell'epopea fu senza confronto maggiore. Essa trovò qui
una seconda patria; e non già solo in questa o quella regione, bensì
oramai in tutto il paese. Ciò non toglie che la vallata del Po fosse il
terreno più disposto ad accoglierla. Colà prima che altrove mise
salde radici e si rivestì di nuove frondi. Agli abitatori di quelle
provincie che avessero qualche poco di coltura, la favella francese
sonava famigliare; sicchè ivi accadde che si rimaneggiasse e
19.
s'arricchisse con nuoveinvenzioni ciò che s'era avuto d'oltralpe
servendosi del linguaggio della Francia e senza dipartirsi dai ritmi
originarii. Linguaggio e ritmo non rimasero; invece, nè potevano
rimanere, al di qua dell'Appennino; l'uno cedette il posto ai volgari
nostri, l'altro all'ottava rima o alla prosa. Ma di quaggiù il mutamento
ebbe poi ad essere comunicato di rimbalzo all'Italia stessa del
settentrione, ridottasi a poco a poco ancor essa ad accogliere un
sentimento più vivo d'italianità nell'ordine altresì della lingua e della
letteratura.
Quanto alla materia di Brettagna, è naturale che anche presso di noi
se ne avessero a compiacere specialmente quelle classi per cui s'era
venuta foggiando. Ciò viene a dire che dovette certo aver voga
maggiore nella Lombardia, intesa nel suo vecchio ed ampio
significato, nella Marca di Treviso, nella Romagna, così ricche di
signori feudali e di piccole corti. Però non a caso Dante pose il
romanzo di Lancillotto tra le mani de' “duo cognati„, con quell'effetto
che troppo ben sapete. Nondimeno e Artù e Tristano e Galvano e
tutta la brigata non mancarono di esercitare vive seduzioni anche qui
nella Toscana sulle fantasie di una gioventù, cui il nascere per la più
parte di popolo non toglieva d'essere amante del “donneare„, della
prodezza del lusso, e di ogni gentil costume. Quindi sulle pareti del
palazzo della sua Madonna il poeta dell'Intelligenza — o perchè non
dirò io Dino Compagni? — darà luogo alla rappresentazione di
questo mondo leggiadro con parole che lasciano intendere quanto
fosse caro al suo cuore (St. 287-288):
E sonvi i pini, e sonvi le fontane.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
E sonvi tutti i begli accontamenti
Che facevan le donne e' cavalieri:
Battaglie, giostre, be' torneamenti,
Foreste, roccie, boscaggi e sentieri.
Quivi sono li bei combattimenti,
Aste troncando e squartando destrieri.
Quivi sono le nobili avventure;
20.
E son tuttea fino auro le ligure:
Le caccie, e corni, valletti e scudieri.
Lungi da me l'idea di parlarvi, sia pure rapidissimamente, di ciò che
da un lato il ciclo carolingio, dall'altro il brettone, produssero presso
di noi nel lungo periodo che precede al mio soggetto, ossia fin verso
il declinare del quattrocento. Questo solo dirò, che il brettone riuscì
poco prolifico, e si limitò quasi sempre a tradurre e verseggiare. Il
carolingio invece fu di una fecondità conigliesca, e mise alla luce una
serie interminabile di romanzi in prosa e in verso, attraenti dapprima,
fino a che in generale si contentavano essi pure di ripetere in forma
schietta ed ingenua narrazioni antiche, ma via via più stucchevoli. Ci
si domanda come la gente del secolo XV — ed anche del XVI —
potesse trovar diletto nel leggere o sentir recitare casi tanto
uniformi, narrati prolissamente e senza grazia. Ci si domanda: ma
quando si vede un fanciullo trastullarsi ore ed ore con quattro
fuscellini, e gli stessi pettegolezzi far le spese della conversazione
universale per una intera settimana, e i cuori di migliaia e migliaia di
persone (osservo, non critico) stare in ansia per veder risolto il gran
problema se quattro zampe di cavallo arriveranno alla mèta un
minuto terzo prima di altre quattro, e rimanersene per questo ore ed
ore sotto la sferza solare, si conchiude che per divertir l'uomo,
grande e piccino, molto poco può essere sufficiente. Vero che non ci
vuol troppo più nemmeno per annoiarlo.
Questa nostra letteratura pareva giunta alla sera — e che squallida
sera! — senza aver avuto un vero meriggio; quando le nubi si
squarciarono e il sole prese a sfolgoreggiare. Esso, par bene, ebbe
prima a mostrarsi a Firenze, dove, secondo le conclusioni di studi
recenti, il Morgante di quella bizzarra creatura che fu Luigi Pulci era
già composto per tre quarti nel 1470. Il valore di questo poema è
tuttavia più scarso che non si pensasse in addietro. D'invenzione non
è da parlare che per pochi episodii, dacchè del resto l'amico del
Magnifico non fece oramai che rintonacare le mura rustiche elevate
da un rimatore popolaresco, sovrapponendovi un tetto costrutto con
travi e tegoli di cui possiamo determinare la provenienza. Il pregio
21.
maggiore dell'opera stanella vivacità, davvero mirabile, dello stile e
della lingua, e nel riso che guizza per ogni dove. Ma insomma, col
Pulci, il romanzo popolare carolingio si riveste di nuovi panni, si
raggentilisce, si abbandona alla gaiezza, senza punto mutare
sostanzialmente. I cantambanchi che in San Martino ed altrove
raccoglievano dattorno a sè un uditorio composto sopratutto di
bottegai e di artefici, potevano ancora riconoscere in messer Luigi
uno dei loro. Che le cose seguissero a questa maniera nella
democratica Firenze, è un fatto più che naturale.
E il Boiardo? — Qui la scena cambia. Ma prima di vedere il come,
bisogna pure che noi si faccia un po' d'amicizia col nostro
personaggio.
Matteo Maria Boiardo nasceva di una famiglia feudale che nel 1423
aveva ceduto al marchese Niccolò d'Este l'avita signoria di Rubiera,
tra Modena e Reggio, ricevendone in cambio la vicina Scandiano ed
altre ville, con titolo di contea. Venne al mondo nel 1434, o giù di lì;
verosimilmente in Scandiano stessa, residenza abituale de' suoi.
Perdette il padre nel 1452; il nonno, Feltrino — uomo insigne — nel
1455; la nonna due anni appresso; e si trovò così arbitro di sè
medesimo in età affatto giovanile. La vita sua, nota a noi in modo
per verità manchevolissimo, trascorse per la massima parte tra
Scandiano, Reggio, Ferrara. Caro agli Estensi, com'era stato loro
carissimo l'avolo, accompagnò nel 1471 Borso nel viaggio intrapreso
a Roma, quando Paolo II gli concedette anche per Ferrara quel titolo
di duca, che l'imperatore Federico gli aveva conferito già da oramai
vent'anni per Modena e Reggio. Sotto Ercole poi, succeduto poco
appresso al fratello, fu nel 1481 e nel 1486 al governo di Modena. E
più lungamente ebbe quello di Reggio: chè, lasciando stare qualcosa
che s'afferma e non si prova per un tempo antecedente, rimase in
ufficio dal 1487, o al più tardi dal principio del 1488, fino alla morte,
seguita nella notte dal 20 al 21 dicembre del 1494.
Educato senza dubbio alcuno all'esercizio delle armi fin dagli anni
suoi teneri, Matteo Maria ebbe scarse occasioni di menar per
davvero le mani. Qualche parte è verosimile che prendesse alla
22.
difesa contro iVeneziani, che nel 1482 mossero ad Ercole una fiera
guerra, durata fino al 1484. Come reggitore, certe voci, posteriori
alquanto, lo accusano di fiacchezza; e non dirò che l'accusa sia
sbugiardata trionfalmente in tutto e per tutto dall'esame di quel
tanto che ci è rimasto del suo carteggio col duca. Certo l'animo suo
era profondamente inclinato alla benevolenza. Non meno che a
questa tuttavia alla giustizia. E il carteggio dà insieme chiaramente a
vedere com'egli fosse largamente dotato di senno pratico, e rotto
agli affari.
Agli uffici pubblici par che Matteo fosse spinto da ragioni private;
probabilmente da strettezze pecuniarie, ben conciliabili anche colla
signoria di Scandiano, toccata propriamente a lui nelle divisioni con
un cugino. Ma occupazione più gradita che le faccende
amministrative, conditegli spesso di fiele da altri ufficiali, gli
riuscivano di sicuro lo studio e la poesia.
Tre libri di liriche amorose contengono soprattutto gli sfoghi della sua
passione giovanile per una diva reggiana, che non tardò a mostrarsi
maestra di lusinghe, simulatrice, volubile, capricciosa. Grazie alla
provvida costumanza degli acrostici, ne conosciamo nome e
cognome: si chiamava Antonia Caprara. Ma Antonia non domina sola
qua dentro. Buon numero di poesie, scritte durante il viaggio a Roma
del 1471, inclino a credere indirizzate da Matteo a Taddea Gonzaga
dei conti di Novellara, divenuta l'anno dopo sua moglie. Ed altre
rivendicazioni dovremmo ammettere (nè dico ciò senza ragioni
specifiche), se alle ossa che furono donne gentili e leggiadre negli
Stati estensi durante la seconda metà del quattrocento fosse
consentito di venir qui a far valere i loro diritti. Chè l'amore fu il
sentimento predominante nel Boiardo. E sia poi stata fatta eseguire
da lui medesimo, oppure invece da altri in suo onore, la medaglia
che nel 1490, quando egli s'avvicinava alla sessantina, ce ne
tramandò — e autentiche — le fattezze, il suo rovescio,
rappresentante Vulcano intento a foggiare sull'incudine strali per
Cupido, lì presente con Venere, e il motto virgiliano che accompagna
la rappresentazione, Amor vincit omnia, ci rendono davvero secondo
verità i lineamenti interni del Conte di Scandiano. Quel motto — si
23.
badi — inuna forma o in un'altra, noi lo raccogliamo direttamente
dalle sue labbra non so quante volte.
Il canzoniere del Boiardo è uno dei più notevoli del secolo XV; e io
mi domando, se mai, non ostante una certa povertà di tavolozza,
non fosse il più notevole addirittura. Attrae e colpisce la sincerità
della passione, di cui noi seguiamo agevolmente la storia nelle sue
vicende liete e tormentose; l'efficacia e la bella semplicità delle
espressioni via via che essa riceve; la vivezza e soavità delle
immagini; la delicata sensitività per la natura; l'armonia squisita dei
congegni ritmici. Se i convenzionalismi e le ricercatezze non
mancano (specialmente, badiamo, nel libro terzo, forse ordinato da
altri che dal poeta), quanto difficilmente potrebber mancare dopo
l'esempio del Petrarca! Ma l'ispirazione petrarchesca, che qui pure
può assai, non soffoca nient'affatto l'originalità. Tra Antonia e Laura,
tra il modo di sentire di Matteo e quello di messer Francesco, c'è una
differenza profonda. Quasi più che a Laura direi che Antonia
rassomigli alla Lesbia di Catullo; ma le assomiglia come una donna
somiglia ad un'altra donna, poichè essa è propriamente persona
viva. Il poeta, trascorsa la prima fase dell'estasi, ce la rappresenta
colle sue pecche; e in causa di lei accusa, più spesso e più
acerbamente che il Petrarca non faccia, tutto il sesso femminile:
Fede non più: non più v'è de honor cura
In questo sexo mobile e fallace,
Ma volubil pensier e mente oscura.
(Son. 79).
Ma anche quando soffre, e non potrebbe più dire di certo, come in
un tempo di beatitudine,
Amore ogni tristezza a l'alma toglie,
(Son. 23)
24.
non sarebbe alienodal ripetere le altre parole che faceva allora tener
dietro:
E quanto la natura ha in sè di bene
Nel core inamorato se raccoglie.
E infatti dell'Amore egli prende una volta le difese in un leggiadro
contrasto col suo proprio cuore che lo viene accusando:
Non sei tu per Amor quel che tu sei?
Se in te vien ligiadria,
Se honor e cortesia?
Ah, pensa pria se lamentar te dei!
Lamentar di colui che l'armonia
Infonde a i vagi ocei!
Che infonde a' tygri humana mente e pia,
E fa li homini Dei
(Canzone V, st. 3).
No, l'amore può tormentarlo quanto si voglia: dopo d'aver imprecato,
Matteo si riconcilierà con lui, e rimarrà tra' suoi più devoti.
Col Canzoniere hanno scarsa attinenza le altre opere minori. Dieci
egloghe latine furono composte, secondo me, tra il 1460 e il 1462;
dieci italiane spettano manifestamente la più parte al tempo della
guerra con Venezia. Perfino nel numero portano scritta in fronte
l'imitazione virgiliana! Qualche sprazzo di luce non vale davvero a
conciliarci con codesti pastori, che non hanno nulla di schiettamente
rustico, neppur quando l'allegoria non ne succhia il sangue. E meno
ancora ci seducono cinque capitoli, quattro dei quali hanno per
soggetto il timore, la gelosia, la speranza, l'amore, e il quinto il
trionfo delle virtù sui vizi. Quanto copiosi di una non recondita
erudizione mitologica e storica, altrettanto son poveri, e peggio, di
poesia. A un posto senza confronto più onorato, segnatamente per
ragion di tempo, può pretendere il Timone: commedia in terza rima,
25.
che non vuolessere se non traduzione e adattamento scenico del
dialogo omonimo di Luciano, e che è qualcosa più. Traduzioni vere
sono quelle che il Boiardo fece, dal greco, dell'Asino d'oro di Luciano
stesso, delle Storie di Erodoto, della Ciropedia; dal latino, dell'Asino
d'oro di Apuleio. Quanto alla Istoria Imperiale, ossia degl'imperatori,
prima romani, poi romano-germanici, che si dà essa pure come
versione di un testo di Riccobaldo ferrarese, ancora non s'è ben
chiarito cosa sia; ma par da ritenere un raffazzonamento del Boiardo
stesso, a cui Riccobaldo non dette se non molta parte del materiale.
Tale, in brevi termini, l'uomo e lo scrittore, venuto ancor esso
nell'idea di metter mano a un poema cavalleresco. Quando l'idea
nascesse, non so dire; so bensì che nientemeno che sessanta dei
sessantotto canti e mezzo che il poeta ci ha lasciato, erano già scritti
al tempo della guerra con Venezia, e probabilmente anche proprio
avanti che nel 1482 la guerra scoppiasse. Chè, tra le armi, il poeta,
smarrito e addolorato, non per la sua provincia soltanto, ma per
l'Italia, non ha cuore di attendere all'opera, e ne rimette a giorni
migliori la continuazione:
Non saran sempre e tempi sì diversi,
Che mi tragan la mente di suo locho.
Ma nel presente e canti mei son persi,
E porvi ogni pensier mi giova poco;
Sentendo Italia de lamenti piena,
Non che hor canti, ma sospiro apena[98].
Però il principio della composizione vorrà riportarsi indietro Dio sa di
quanto; nè con essa ha dunque assolutamente che vedere la
pubblicazione del Morgante, seguìta essa pure solo nel febbraio di
quel medesimo anno 1482. E per me credo assai poco che vi abbia
che vedere nemmeno in altra maniera il poema fiorentino, del quale
la voce, od anche qualche esemplare manoscritto o qualche saggio,
fossero arrivati fino al Nostro. In ogni modo, se da Firenze fosse
venuto qualcosa, non si tratterebbe che di un semplice impulso, di
cui poco capisco che ci potesse esser bisogno.
26.
Sicchè dobbiam faredirettamente i conti col nostro Matteo Maria.
Cosa ci saprà e vorrà egli dare? — Se ci mettiamo ad argomentare
dalle altre opere, il Canzoniere ci inspirerà una certa fiducia; ma
tutto il rimanente ci farà scuotere il capo in atto di diffidenza. Che
razza di poema cavalleresco dovrem noi aspettarci da un erudito, da
un traduttore, da un imitatore, dal coltivatore assiduo di un genere
letterario quale è l'egloga virgiliana, falso in sè medesimo e più falso
ne' suoi riflessi?
Diffidiamo; ma se invece di baloccarci fantasticando ci daremo a
guardare, saremo presi da un sentimento analogo a quello da cui
sarebbe colto chi per la prima volta s'accorgesse che l'autore del
Convivio, del De Monarchia, del De Vulgari Eloquentia, è ad un
tempo l'autore della Divina Commedia. Contemplando, siamo indotti
a riconoscere che se l'Italia produsse mai un uomo a cui la materia
cavalleresca potesse convenire, fu per l'appunto il Boiardo. E
quest'uomo era in pari tempo un esperto maneggiatore di affari
grossi e piccini. Davvero, per quanto si deva sentir ritegno a lodarsi
di sè medesimi, non si può trattenersi dal notare come sia dote
caratteristica dell'ingegno italiano la moltiplicità delle attitudini.
Rassomiglierei questo ingegno al cubo, che, adagiato su sei facce
diverse, è sempre stabile ed equilibrato ad un modo.
Erano due, come sapete, i cicli che il Boiardo si trovava dinanzi: il
carolingio ed il brettone. Entrambi gli erano ben famigliari; ma a lui
la schiatta e il costume signorile, e ancor più l'animo amoroso,
rendevano tra i due molto più grato il secondo:
O gloriosa Bertagna la grande,
Una stagion per l'arme e per l'amore,
Onde ancor hoggi il nome suo si spande.
Sì ch'al re Artuse fa portar honore:
Quando e bon cavalieri a quelle bande
Mostrarno in più battaglie il suo valore
Andando con lor dame in aventura;
Et hor sua fama al nostro tempo dura.
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