Con l’inizio dell’adolescenza, viceversa, il
gruppo dei coetanei assume una netta
preminenza rispetto agli adulti ed ogni
adolescente appartenente ad un gruppo
considera quest’ultimo come qualcosa di
proprio: un contesto in cui può avere legami
personali con altri, in cui può ottenere
qualcosa che altrimenti sarebbe
irraggiungibile, in cui sente di contare come
persona.
Del gruppo fanno parte altri dai quali
l’adolescente vuole essere accettato, con
cui si confronta per verificare la propria
autostima nonché le esperienze di successo
e di fallimento. Gli amici del gruppo e l’amico
del cuore costituiscono un sostegno ed un
punto di riferimento in una fase della vita in
cui i rapporti con gli adulti sono messi in crisi
dal crescente bisogno di autonomia.
Rappresentano “zone franche” in cui un ragazzo
sente di poter discutere alla pari di problemi che
sono comuni anche agli altri, e trova nella presenza
degli altri motivo di costante rassicurazione. La
possibilità di far parte di un gruppo diventa alla luce
di queste considerazioni fondamentale per una
persona disabile e, soprattutto, nelle scuole superiori
l’obiettivo primario resta la costruzione di “relazioni
inclusive” basate sul compito di porre tutti i soggetti
sullo stesso livello e consentire loro di rispecchiarsi
nell’identità del proprio gruppo.
Per un allievo adolescente che si prepara ad
affrontare il percorso delle scuole superiori
occorrono, di conseguenza insegnanti molto
preparati, insegnanti cioè nei quali le diverse
componenti della professionalità non solo
siano tutte presenti in maniera
soddisfacente ma siano soprattutto adatte a
rispondere bene agli specifici problemi
educativi che si presentano in questo
periodo dello sviluppo.
Per un adolescente portatore di handicap è
molto più sfumata rispetto ai suoi coetanei
l’opportunità che la famiglia o la scuola gli
offra la possibilità di ricoprire un ruolo; inoltre
vi è un atteggiamento diffuso da parte della
società e della famiglia di combattere contro
i sentimenti di rifiuto, proteggendo il
portatore di handicap e trattandolo come un
“eterno infante”, un bambino all’infinito.
Queste modalità risultano inadeguate nella
situazione adolescenziale, dove invece c’è
sempre più bisogno di sentire che un ruolo
viene riconosciuto per appropriarsi di
un’identità, di un’idea del sé che vede un
ragazzo sempre più impegnato in un costante
sforzo di riflessione sulla sua stessa persona,
una riflessione che ha come obiettivo principale
quello di elaborare un’immagine unitaria di sè ,
nel cui ambito le varie qualità appaiono fra loro
in un rapporto dinamico, che può essere di
potenziamento, di attenuazione o di
compensazione.
Quando le classi sono eterogenee, un obiettivo
evidente è quello che tra gli alunni si sviluppi
comprensione e rispetto per le differenze di
ciascuno, affinché ognuno possa sostenere e
incentivare l’apprendimento egli altri.
L’apprendimento cooperativo offre
un’alternativa naturale, un modo per orientare
la classe in maniera tale che gli alunni lavorino
insieme per raggiungere gli obiettivi didattici e
favorire buone relazioni sociali.
Dai risultati di un confronto sperimentale è
emerso che le esperienze di apprendimento
cooperativo, rispetto a quello di apprendimento
competitivo ed individualista, hanno favorito
una maggiore interazione tra allievi disabili e
normodotati ed una maggiore empatia tra tutti
gli alunni Il portatore di handicap che riesce a
svolgere un lavoro anche se minimo e
meccanico, ricopre un ruolo che gli può
consentire l’accesso in un meccanismo
circolare di autovalutazione e di fiducia nelle
proprie capacità.
Ma in un ambiente come quello della scuola
superiore è più difficile per un allievo
adolescente disabile individuare un ruolo
capace di creare un riconoscimento di un
senso di esistere positivo ed utile. Tra l’altro
quando in una classe di un istituto superiore vi
è un allievo portatore di handicap si possono
incontrare difficoltà nella comunicazione e nella
definizione dei ritmi di apprendimento
attraverso mezzi e strumenti comuni.
I programmi più rigidi non permettono di
adeguarsi a situazioni particolari e, di
conseguenza, i docenti delle scuole secondarie
superiori hanno maggiori difficoltà a
confrontarsi con la diversità degli alunni e a
realizzare insegnamenti individualizzati. Al
contrario i docenti curriculari e di sostegno
devono considerare l’opportunità di progettare
per gli allievi disabili un percorso verso
l’autonomia che è legata ad un processo di
identità di ragazzi che scoprono giorno dopo
giorno difficoltà e possibilità.
Rappresentano “zone franche” in cui un ragazzo
sente di poter discutere alla pari di problemi che
sono comuni anche agli altri, e trova nella presenza
degli altri motivo di costante rassicurazione. La
possibilità di far parte di un gruppo diventa alla luce
di queste considerazioni fondamentale per una
persona disabile e, soprattutto, nelle scuole superiori
l’obiettivo primario resta la costruzione di “relazioni
inclusive” basate sul compito di porre tutti i soggetti
sullo stesso livello e consentire loro di rispecchiarsi
nell’identità del proprio gruppo.
Progetto individualizzato, infatti, non vuol
dire separazione dell’allievo portatore di
handicap da un’appartenenza ad una classe
o ad un contesto scolastico ma permettere
allievo medesimo di percorrere una strada
diversa che conduce ad obiettivi comuni ai
suoi coetanei. Fondamentale per realizzare
ciò è anche la costruzione di reti di amicizia
in cui diventa necessaria la partecipazione
dei soggetti alle decisioni.
A scuola, infatti, gli alunni possono essere investiti
della responsabilità di accogliere e gestire il
compagno portatore di handicap, inventando
modalità di lavoro affinché anche lui sia parte di un
sistema. L’educazione inclusiva, infatti, viene favorita
in ambienti scolastici in cui l’insegnamento è attivo
ed in cui le difficoltà ed i problemi che insorgono
vengono analizzati per produrre miglioramenti; come
sottolineavano Mallette e colleghi (1992), il silenzio o
il pianto di un alunno, ad esempio, può essere
segnale di solitudine o protesta oppure il colpire un
oggetto scolastico può essere indicatore della
eccessiva difficoltà di un compito.
E’ necessario, pertanto, stimolare la
partecipazione attiva degli alunni attraverso la
cooperazione e la propensione a lavorare in
gruppi guidati. Quanto più l’insegnante
permetterà alle diversità di essere il
“carburante” di un creativo problemsolving,
tanto maggiore sarà l’inclusione che saprà
realizzare. Occorre per l’alunno disabile la
necessità di rendere sempre più "speciale" la
"normalità" del far scuola tutti i giorni. la
normalità del relazionarsi e dell’imparare con
tutti gli altri alunni.
Ciò gli dà identità, appartenenza, sicurezza ed
autostima, ed è efficace a produrre
apprendimenti rispetto alle sue specifiche
problematiche, anche complesse. L’alunno con
disabilità ha infatti sia il diritto all’integrazione
che il diritto a risposte specifiche e efficaci. Le
due cose non sono affatto in contraddizione,
come non lo sono la normalità e la specialità,
se le combiniamo nella «speciale normalità».
Una normalità più speciale, che ci consenta di
sfuggire ai rischi della separazione da un lato e
dell’improvvisazione dall’altro.
Era consapevole di questi rischi anche Vygotskij,
quando scriveva: “L’isolamento dei ciechi in scuole
speciali non può dare buoni risultati, poiché, nel far
ciò, tutto il lavoro educativo fissa l’attenzione degli
alunni sulla loro cecità invece di dare a essa un’altra
direzione. Si rafforza la psicologia del separatismo
propria dei ciechi, restringendoli in un microcosmo
stretto e soffocante”. Per questo, il compito naturale
dell’educazione di questi bambini (con ritardo
mentale) è l’instaurazione di quelle reazioni vitali più
indispensabili che potrebbero realizzare un seppur
minimo loro adattamento all’ambiente, fare di loro
membri utili della società e rendere la loro vita
sensata e attiva.
È estremamente importante, dal punto di vista
psicologico, non rinchiuderli in gruppi particolari, ma
stimolare nella pratica, più ampiamente possibile, i loro
rapporti con gli altri bambini. Le considerazioni
pedagogiche pratiche sull’opportunità di un’educazione
arrivano a volte in questi casi a una contraddizione con
le esigenze psicologiche. Per esempio quando si
presenta il principio della scuola ausiliaria: alcuni
pedagoghi ritengono che la separazione dei bambini
ritardati in scuole speciali non è sempre utile sebbene,
dal punto di vista della realizzazione dei programmi, sia
desiderabile liberare le scuole comuni dai bambini che
rimangono indietro.
Tuttavia, nei casi di ritardo più grave, non esiste alcun
dubbio sul fatto che siamo costretti a incaricare
dell’educazione di tali bambini scuole create
appositamente per questo. Anche in queste righe si
rincorre una duplice esigenza: di normalità e di
specialità, che Vygotskij sentiva quasi in
«contraddizione». Quasi cento anni fa era difficile, anche
per uno studioso così profeticamente anticipatore come
lui, pensare a una soluzione che avvicinasse le esigenze
psicologiche e pedagogiche della specialità e della
normalità. L’integrazione scolastica migliore, quella che
realizza la «speciale normalità» può rispondere oggi a
questi bisogni apparentemente così antagonisti.
Normalità dunque come uguaglianza di
valore. Alla normalità si deve dare un primo
significato (e valore) come identità dei diritti:
normalità come pari valore di ognuno,
uguaglianza dei diritti, a prescindere dalle
condizioni personali, sociali, ecc. Il pari
valore intrinseco di ogni persona è alla base
dell’intero corpus di leggi e norme del nostro
Paese, partendo dalla Costituzione.
Per un allievo adolescente che si prepara ad
affrontare il percorso delle scuole superiori
occorrono, di conseguenza insegnanti molto
preparati, insegnanti cioè nei quali le diverse
componenti della professionalità non solo
siano tutte presenti in maniera
soddisfacente ma siano soprattutto adatte a
rispondere bene agli specifici problemi
educativi che si presentano in questo
periodo dello sviluppo.
Questo bisogno di normalità non nega la diversità o il
bisogno speciale dei deficit o delle patologie specifiche,
soltanto li colloca all’interno di un fondamentale ed
essenziale bisogno di normalità, di valore e di dignità.
L’affermazione dell’uguaglianza e del pari valore non
nega le reali diversità delle persone, ma non le usa come
discriminanti o per giustificare la riduzione di diritti e
opportunità. Ma la normalità non è soltanto «valore
normale», cioè uguale di ogni persona, è anche fare
come tutti, vivere con tutti gli altri, fare le esperienze che
tutti gli altri fanno, nelle istituzioni, nelle aspettative, nelle
consuetudini, nelle abitudini, nei rituali, nei luoghi
«normali», quelli cioè «di tutti», non soltanto di qualcuno.
Il senso di appartenenza alla normalità crea
anche coesione sociale tra gruppi che
potrebbero altrimenti non aver alcun
rapporto e legame reciproci, come ad
esempio gli alunni disabili in una scuola
speciale e gli alunni che frequentano una
scuola normale. Questo benessere
psicologico non è soltanto a senso unico,
non ne beneficia, cioè, soltanto la persona
debole, quella che aspira alla normalità
perché non è normale.
Tutti ne abbiamo bisogno e tutti godiamo dei
benefici della normalità e dell’appartenenza alla
normalità di tutti, anche di chi ha differenze.
Nella normalità scolastica tra insegnanti,
compagni e materiali di apprendimento normali,
anche l’alunno disabile ha maggiori probabilità
di essere categorizzato come più «normale»,
con le positive aspettative che ne conseguono,
rispetto a quelle che avrebbe se fosse
associato stabilmente ad un gruppo di soggetti
non-normali (ad esempio, una classe speciale
di alunni disabili).
Nella normalità ci sono più probabilità di
elaborare una identità sociale normale, con
motivazioni, valori e obiettivi comuni e condivisi
con gli altri compagni di vita. La normalità
istituisce, struttura anche modi di pensare,
significati, schemi di comportamento condivisi,
regole e rituali, modelli che si fissano e si
interiorizzano per effetto di identificazione,
ripetizione, partecipazione, comunicazione e
coevoluzione. Si impara a pensare percepire,
agire, insieme ad altri, insieme a tutti gli altri.
Ci si sente un gruppo normale, con le caratteristiche
della normale gruppalità quando si interagisce per
raggiungere uno scopo comune, quando siamo
consapevoli del fatto che l’essere in gruppo costituisce
uno strumento utile al raggiungimento di obiettivi rilevanti
Come dice Nirje, normalizzazione significa un ritmo
normale del giorno, della settimana, dell’anno, ma
significa anche vivere le esperienze normali di sviluppo
nel ciclo della vita; godere di una gamma di scelte ed
ambizioni; il diritto di vivere in una casa normale in un
quartiere normale, significa non essere isolato dalla
società A supporto di questa tesi, particolarmente
interessante è il lavoro di Peck, Donaldson e Pezzoli in
cui sono riportate le interviste di 21 studenti di scuola
media superiore a proposito della loro esperienza di
contatto con compagni disabili.
L’esame dei protocolli indica che questi studenti
valutano positivamente l’esperienza avendone
ricevuto numerosi benefici. Infatti la ricerca
rileva non solo un maggiore sviluppo dei valori
personali, ma anche un miglioramento del
concetto di sé e, soprattutto, una maggiore
comprensione interpersonale. Si constata
inoltre un aumento della capacità di
comprensione dei sentimenti e delle
convinzioni che motivano il comportamento
degli altri e, contemporaneamente, delle
differenze che di fatto esistono tra gli individui.
Nella prassi educativa quotidiana, gran parte del
lavoro ricade sul docente di sostegno, una figura di
insegnante che nella scuola superiore non ha trovato
ancora un ruolo preciso ed identificato come l’unica
persona cui delegare i problemi relativi alla presenza
in classe di uno o più allievi portatori di handicap.
Tutto ciò perché chi ha dei bisogni particolari non è
separato e neanche il suo percorso scolastico deve
avvenire in una dimensione separata; chi ha delle
esigenze separate deve poter comprendere che
appartiene ad una società; di conseguenza il
percorso individualizzato non deve trasformarsi in un
percorso separato.
L’originalità di un individuo è nell’appartenenza ad
una pluralità di originalità che compongono una
società e la comunità scolastica ha, pertanto, questo
dovere non esclusivo e tale da riflettere un dovere
più ampio. A volte il timore delle famiglie nasce dalla
possibilità di interpretare l’integrazione come
qualcosa che potrebbe causare la perdita,
soprattutto dopo la scuola superiore, di
quell’accompagnamento istituzionale che invece
deve rimanere. In questo senso è utile la riflessione
in margine a quel passo di Kant in cui si legge che la
colomba leggera, quando nel suo volo libero fende
l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare
di riuscire a volare meglio nello spazio vuoto d’aria. Il
vuoto d’aria però non le consentirebbe di volare.
Per un adolescente portatore di handicap è
molto più sfumata rispetto ai suoi coetanei
l’opportunità che la famiglia o la scuola gli
offra la possibilità di ricoprire un ruolo; inoltre
vi è un atteggiamento diffuso da parte della
società e della famiglia di combattere contro
i sentimenti di rifiuto, proteggendo il
portatore di handicap e trattandolo come un
“eterno infante”, un bambino all’infinito.
Una scuola, insomma, d'ispirazione e di respiro europeo, che al
tempo stesso sia profondamente radicata nelle tradizioni e nelle
realtà nazionali e locali, abbia un’identità riconoscibile e
condivisa, pur nella molteplicità delle appartenenze e delle
convinzioni culturali, ma senza negare, anzi esaltando, il valore
delle diversità. Una scuola che, attraverso il sapere, il fare e
l'agire formi tutti gli allievi come persone, faccia loro acquisire
conoscenze e competenze adeguate e, nel contempo, li prepari
all'inserimento nel mondo del lavoro. In tale prospettiva
“l’insegnamento dovrebbe essere considerato una professione i
cui membri assicurano un servizio pubblico; tale professione
richiede non solo conoscenze approfondite e competenze
specifiche, acquisite e mantenute attraverso studi rigorosi e
continui, ma anche senso di responsabilità individuale e
collettiva nei confronti dell’educazione e del benessere degli
allievi.”

MIILIV_M4C5 Appendice 4 parte 3

  • 1.
    Con l’inizio dell’adolescenza,viceversa, il gruppo dei coetanei assume una netta preminenza rispetto agli adulti ed ogni adolescente appartenente ad un gruppo considera quest’ultimo come qualcosa di proprio: un contesto in cui può avere legami personali con altri, in cui può ottenere qualcosa che altrimenti sarebbe irraggiungibile, in cui sente di contare come persona.
  • 2.
    Del gruppo fannoparte altri dai quali l’adolescente vuole essere accettato, con cui si confronta per verificare la propria autostima nonché le esperienze di successo e di fallimento. Gli amici del gruppo e l’amico del cuore costituiscono un sostegno ed un punto di riferimento in una fase della vita in cui i rapporti con gli adulti sono messi in crisi dal crescente bisogno di autonomia.
  • 3.
    Rappresentano “zone franche”in cui un ragazzo sente di poter discutere alla pari di problemi che sono comuni anche agli altri, e trova nella presenza degli altri motivo di costante rassicurazione. La possibilità di far parte di un gruppo diventa alla luce di queste considerazioni fondamentale per una persona disabile e, soprattutto, nelle scuole superiori l’obiettivo primario resta la costruzione di “relazioni inclusive” basate sul compito di porre tutti i soggetti sullo stesso livello e consentire loro di rispecchiarsi nell’identità del proprio gruppo.
  • 4.
    Per un allievoadolescente che si prepara ad affrontare il percorso delle scuole superiori occorrono, di conseguenza insegnanti molto preparati, insegnanti cioè nei quali le diverse componenti della professionalità non solo siano tutte presenti in maniera soddisfacente ma siano soprattutto adatte a rispondere bene agli specifici problemi educativi che si presentano in questo periodo dello sviluppo.
  • 5.
    Per un adolescenteportatore di handicap è molto più sfumata rispetto ai suoi coetanei l’opportunità che la famiglia o la scuola gli offra la possibilità di ricoprire un ruolo; inoltre vi è un atteggiamento diffuso da parte della società e della famiglia di combattere contro i sentimenti di rifiuto, proteggendo il portatore di handicap e trattandolo come un “eterno infante”, un bambino all’infinito.
  • 6.
    Queste modalità risultanoinadeguate nella situazione adolescenziale, dove invece c’è sempre più bisogno di sentire che un ruolo viene riconosciuto per appropriarsi di un’identità, di un’idea del sé che vede un ragazzo sempre più impegnato in un costante sforzo di riflessione sulla sua stessa persona, una riflessione che ha come obiettivo principale quello di elaborare un’immagine unitaria di sè , nel cui ambito le varie qualità appaiono fra loro in un rapporto dinamico, che può essere di potenziamento, di attenuazione o di compensazione.
  • 7.
    Quando le classisono eterogenee, un obiettivo evidente è quello che tra gli alunni si sviluppi comprensione e rispetto per le differenze di ciascuno, affinché ognuno possa sostenere e incentivare l’apprendimento egli altri. L’apprendimento cooperativo offre un’alternativa naturale, un modo per orientare la classe in maniera tale che gli alunni lavorino insieme per raggiungere gli obiettivi didattici e favorire buone relazioni sociali.
  • 8.
    Dai risultati diun confronto sperimentale è emerso che le esperienze di apprendimento cooperativo, rispetto a quello di apprendimento competitivo ed individualista, hanno favorito una maggiore interazione tra allievi disabili e normodotati ed una maggiore empatia tra tutti gli alunni Il portatore di handicap che riesce a svolgere un lavoro anche se minimo e meccanico, ricopre un ruolo che gli può consentire l’accesso in un meccanismo circolare di autovalutazione e di fiducia nelle proprie capacità.
  • 9.
    Ma in unambiente come quello della scuola superiore è più difficile per un allievo adolescente disabile individuare un ruolo capace di creare un riconoscimento di un senso di esistere positivo ed utile. Tra l’altro quando in una classe di un istituto superiore vi è un allievo portatore di handicap si possono incontrare difficoltà nella comunicazione e nella definizione dei ritmi di apprendimento attraverso mezzi e strumenti comuni.
  • 10.
    I programmi piùrigidi non permettono di adeguarsi a situazioni particolari e, di conseguenza, i docenti delle scuole secondarie superiori hanno maggiori difficoltà a confrontarsi con la diversità degli alunni e a realizzare insegnamenti individualizzati. Al contrario i docenti curriculari e di sostegno devono considerare l’opportunità di progettare per gli allievi disabili un percorso verso l’autonomia che è legata ad un processo di identità di ragazzi che scoprono giorno dopo giorno difficoltà e possibilità.
  • 11.
    Rappresentano “zone franche”in cui un ragazzo sente di poter discutere alla pari di problemi che sono comuni anche agli altri, e trova nella presenza degli altri motivo di costante rassicurazione. La possibilità di far parte di un gruppo diventa alla luce di queste considerazioni fondamentale per una persona disabile e, soprattutto, nelle scuole superiori l’obiettivo primario resta la costruzione di “relazioni inclusive” basate sul compito di porre tutti i soggetti sullo stesso livello e consentire loro di rispecchiarsi nell’identità del proprio gruppo.
  • 12.
    Progetto individualizzato, infatti,non vuol dire separazione dell’allievo portatore di handicap da un’appartenenza ad una classe o ad un contesto scolastico ma permettere allievo medesimo di percorrere una strada diversa che conduce ad obiettivi comuni ai suoi coetanei. Fondamentale per realizzare ciò è anche la costruzione di reti di amicizia in cui diventa necessaria la partecipazione dei soggetti alle decisioni.
  • 13.
    A scuola, infatti,gli alunni possono essere investiti della responsabilità di accogliere e gestire il compagno portatore di handicap, inventando modalità di lavoro affinché anche lui sia parte di un sistema. L’educazione inclusiva, infatti, viene favorita in ambienti scolastici in cui l’insegnamento è attivo ed in cui le difficoltà ed i problemi che insorgono vengono analizzati per produrre miglioramenti; come sottolineavano Mallette e colleghi (1992), il silenzio o il pianto di un alunno, ad esempio, può essere segnale di solitudine o protesta oppure il colpire un oggetto scolastico può essere indicatore della eccessiva difficoltà di un compito.
  • 14.
    E’ necessario, pertanto,stimolare la partecipazione attiva degli alunni attraverso la cooperazione e la propensione a lavorare in gruppi guidati. Quanto più l’insegnante permetterà alle diversità di essere il “carburante” di un creativo problemsolving, tanto maggiore sarà l’inclusione che saprà realizzare. Occorre per l’alunno disabile la necessità di rendere sempre più "speciale" la "normalità" del far scuola tutti i giorni. la normalità del relazionarsi e dell’imparare con tutti gli altri alunni.
  • 15.
    Ciò gli dàidentità, appartenenza, sicurezza ed autostima, ed è efficace a produrre apprendimenti rispetto alle sue specifiche problematiche, anche complesse. L’alunno con disabilità ha infatti sia il diritto all’integrazione che il diritto a risposte specifiche e efficaci. Le due cose non sono affatto in contraddizione, come non lo sono la normalità e la specialità, se le combiniamo nella «speciale normalità». Una normalità più speciale, che ci consenta di sfuggire ai rischi della separazione da un lato e dell’improvvisazione dall’altro.
  • 16.
    Era consapevole diquesti rischi anche Vygotskij, quando scriveva: “L’isolamento dei ciechi in scuole speciali non può dare buoni risultati, poiché, nel far ciò, tutto il lavoro educativo fissa l’attenzione degli alunni sulla loro cecità invece di dare a essa un’altra direzione. Si rafforza la psicologia del separatismo propria dei ciechi, restringendoli in un microcosmo stretto e soffocante”. Per questo, il compito naturale dell’educazione di questi bambini (con ritardo mentale) è l’instaurazione di quelle reazioni vitali più indispensabili che potrebbero realizzare un seppur minimo loro adattamento all’ambiente, fare di loro membri utili della società e rendere la loro vita sensata e attiva.
  • 17.
    È estremamente importante,dal punto di vista psicologico, non rinchiuderli in gruppi particolari, ma stimolare nella pratica, più ampiamente possibile, i loro rapporti con gli altri bambini. Le considerazioni pedagogiche pratiche sull’opportunità di un’educazione arrivano a volte in questi casi a una contraddizione con le esigenze psicologiche. Per esempio quando si presenta il principio della scuola ausiliaria: alcuni pedagoghi ritengono che la separazione dei bambini ritardati in scuole speciali non è sempre utile sebbene, dal punto di vista della realizzazione dei programmi, sia desiderabile liberare le scuole comuni dai bambini che rimangono indietro.
  • 18.
    Tuttavia, nei casidi ritardo più grave, non esiste alcun dubbio sul fatto che siamo costretti a incaricare dell’educazione di tali bambini scuole create appositamente per questo. Anche in queste righe si rincorre una duplice esigenza: di normalità e di specialità, che Vygotskij sentiva quasi in «contraddizione». Quasi cento anni fa era difficile, anche per uno studioso così profeticamente anticipatore come lui, pensare a una soluzione che avvicinasse le esigenze psicologiche e pedagogiche della specialità e della normalità. L’integrazione scolastica migliore, quella che realizza la «speciale normalità» può rispondere oggi a questi bisogni apparentemente così antagonisti.
  • 19.
    Normalità dunque comeuguaglianza di valore. Alla normalità si deve dare un primo significato (e valore) come identità dei diritti: normalità come pari valore di ognuno, uguaglianza dei diritti, a prescindere dalle condizioni personali, sociali, ecc. Il pari valore intrinseco di ogni persona è alla base dell’intero corpus di leggi e norme del nostro Paese, partendo dalla Costituzione.
  • 20.
    Per un allievoadolescente che si prepara ad affrontare il percorso delle scuole superiori occorrono, di conseguenza insegnanti molto preparati, insegnanti cioè nei quali le diverse componenti della professionalità non solo siano tutte presenti in maniera soddisfacente ma siano soprattutto adatte a rispondere bene agli specifici problemi educativi che si presentano in questo periodo dello sviluppo.
  • 21.
    Questo bisogno dinormalità non nega la diversità o il bisogno speciale dei deficit o delle patologie specifiche, soltanto li colloca all’interno di un fondamentale ed essenziale bisogno di normalità, di valore e di dignità. L’affermazione dell’uguaglianza e del pari valore non nega le reali diversità delle persone, ma non le usa come discriminanti o per giustificare la riduzione di diritti e opportunità. Ma la normalità non è soltanto «valore normale», cioè uguale di ogni persona, è anche fare come tutti, vivere con tutti gli altri, fare le esperienze che tutti gli altri fanno, nelle istituzioni, nelle aspettative, nelle consuetudini, nelle abitudini, nei rituali, nei luoghi «normali», quelli cioè «di tutti», non soltanto di qualcuno.
  • 22.
    Il senso diappartenenza alla normalità crea anche coesione sociale tra gruppi che potrebbero altrimenti non aver alcun rapporto e legame reciproci, come ad esempio gli alunni disabili in una scuola speciale e gli alunni che frequentano una scuola normale. Questo benessere psicologico non è soltanto a senso unico, non ne beneficia, cioè, soltanto la persona debole, quella che aspira alla normalità perché non è normale.
  • 23.
    Tutti ne abbiamobisogno e tutti godiamo dei benefici della normalità e dell’appartenenza alla normalità di tutti, anche di chi ha differenze. Nella normalità scolastica tra insegnanti, compagni e materiali di apprendimento normali, anche l’alunno disabile ha maggiori probabilità di essere categorizzato come più «normale», con le positive aspettative che ne conseguono, rispetto a quelle che avrebbe se fosse associato stabilmente ad un gruppo di soggetti non-normali (ad esempio, una classe speciale di alunni disabili).
  • 24.
    Nella normalità cisono più probabilità di elaborare una identità sociale normale, con motivazioni, valori e obiettivi comuni e condivisi con gli altri compagni di vita. La normalità istituisce, struttura anche modi di pensare, significati, schemi di comportamento condivisi, regole e rituali, modelli che si fissano e si interiorizzano per effetto di identificazione, ripetizione, partecipazione, comunicazione e coevoluzione. Si impara a pensare percepire, agire, insieme ad altri, insieme a tutti gli altri.
  • 25.
    Ci si senteun gruppo normale, con le caratteristiche della normale gruppalità quando si interagisce per raggiungere uno scopo comune, quando siamo consapevoli del fatto che l’essere in gruppo costituisce uno strumento utile al raggiungimento di obiettivi rilevanti Come dice Nirje, normalizzazione significa un ritmo normale del giorno, della settimana, dell’anno, ma significa anche vivere le esperienze normali di sviluppo nel ciclo della vita; godere di una gamma di scelte ed ambizioni; il diritto di vivere in una casa normale in un quartiere normale, significa non essere isolato dalla società A supporto di questa tesi, particolarmente interessante è il lavoro di Peck, Donaldson e Pezzoli in cui sono riportate le interviste di 21 studenti di scuola media superiore a proposito della loro esperienza di contatto con compagni disabili.
  • 26.
    L’esame dei protocolliindica che questi studenti valutano positivamente l’esperienza avendone ricevuto numerosi benefici. Infatti la ricerca rileva non solo un maggiore sviluppo dei valori personali, ma anche un miglioramento del concetto di sé e, soprattutto, una maggiore comprensione interpersonale. Si constata inoltre un aumento della capacità di comprensione dei sentimenti e delle convinzioni che motivano il comportamento degli altri e, contemporaneamente, delle differenze che di fatto esistono tra gli individui.
  • 27.
    Nella prassi educativaquotidiana, gran parte del lavoro ricade sul docente di sostegno, una figura di insegnante che nella scuola superiore non ha trovato ancora un ruolo preciso ed identificato come l’unica persona cui delegare i problemi relativi alla presenza in classe di uno o più allievi portatori di handicap. Tutto ciò perché chi ha dei bisogni particolari non è separato e neanche il suo percorso scolastico deve avvenire in una dimensione separata; chi ha delle esigenze separate deve poter comprendere che appartiene ad una società; di conseguenza il percorso individualizzato non deve trasformarsi in un percorso separato.
  • 28.
    L’originalità di unindividuo è nell’appartenenza ad una pluralità di originalità che compongono una società e la comunità scolastica ha, pertanto, questo dovere non esclusivo e tale da riflettere un dovere più ampio. A volte il timore delle famiglie nasce dalla possibilità di interpretare l’integrazione come qualcosa che potrebbe causare la perdita, soprattutto dopo la scuola superiore, di quell’accompagnamento istituzionale che invece deve rimanere. In questo senso è utile la riflessione in margine a quel passo di Kant in cui si legge che la colomba leggera, quando nel suo volo libero fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare di riuscire a volare meglio nello spazio vuoto d’aria. Il vuoto d’aria però non le consentirebbe di volare.
  • 29.
    Per un adolescenteportatore di handicap è molto più sfumata rispetto ai suoi coetanei l’opportunità che la famiglia o la scuola gli offra la possibilità di ricoprire un ruolo; inoltre vi è un atteggiamento diffuso da parte della società e della famiglia di combattere contro i sentimenti di rifiuto, proteggendo il portatore di handicap e trattandolo come un “eterno infante”, un bambino all’infinito.
  • 30.
    Una scuola, insomma,d'ispirazione e di respiro europeo, che al tempo stesso sia profondamente radicata nelle tradizioni e nelle realtà nazionali e locali, abbia un’identità riconoscibile e condivisa, pur nella molteplicità delle appartenenze e delle convinzioni culturali, ma senza negare, anzi esaltando, il valore delle diversità. Una scuola che, attraverso il sapere, il fare e l'agire formi tutti gli allievi come persone, faccia loro acquisire conoscenze e competenze adeguate e, nel contempo, li prepari all'inserimento nel mondo del lavoro. In tale prospettiva “l’insegnamento dovrebbe essere considerato una professione i cui membri assicurano un servizio pubblico; tale professione richiede non solo conoscenze approfondite e competenze specifiche, acquisite e mantenute attraverso studi rigorosi e continui, ma anche senso di responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’educazione e del benessere degli allievi.”