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La Corte Costituzionale si è pronunciata per tre volte sul fine vita. In mancanza di una norma nazionale, ogni regione va per conto proprio
La Toscana è stata la prima Regione ad approvare una legge, grazie alla quale verranno garantiti ai malati tempi e modalità certi per l'accesso al suicidio assistito, seguita dalla Sardegna. In Senato un muro di polemiche ha accolto il testo base del ddl approvato dalla maggioranza. Mentre sono finora nove le persone che hanno potuto accedere a questa procedura medica in Italia, continuano i viaggi per ottenerla all'estero, in ultimo quello di Martina Oppelli.
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L'eutanasia è vietata in Italia, mentre il suicidio assistito, dopo l'intervento della Corte Costituzionale del 2019, è consentito ma solo ad alcune condizioni. A sei anni di distanza dalla storica sentenza sul caso del Dj Fabo, che ha aperto la strada a questa procedura medica, ancora non c'è una legge nazionale sul fine vita e il nuovo tentativo di legiferare da parte del Parlamento crea molte polemiche, suscitando proteste anche da parte degli stessi medici. In questo contesto, l'approvazione, da parte del Consiglio Regionale della Toscana, della proposta di legge promossa dall'Associazione Luca Coscioni ha costituito il primo caso di regolamentazione del suicidio assistito a livello regionale nel nostro Paese.
Intanto, il Rapporto annuale del Censis, nel 2023, il 74% dei cittadini in Italia si dichiarava favorevole all’eutanasia. E cresce il numero di chi cerca informazioni. C'è chi chiama perché è in condizioni gravi e chi lo fa perché potrebbe trovarcisi in futuro, chi lo fa per se stesso e chi per altri: negli ultimi 12 mesi sono arrivate 16.035 richieste di informazioni sul fine vita tramite il Numero Bianco dell'Associazione Luca Coscioni (06 99313409), una media di 44 richieste al giorno, in crescita del 14 per cento rispetto all’anno precedente.
Il cinema non si è tirato indietro di fronte a questo spinoso tema: l'ultimo regista a sceglierlo, in ordine di tempo, è stato Pedro Almodovar, che ha ottenuto il Leone d'oro a Venezia con "La stanza accanto". Prima di lui, a cimentarsi con le difficoltà emotive ed etiche del malato che sceglie di morire, sono stati Marco Bellocchio, con "La Bella Addormentata", (che racconta la storia di Eluana Englaro), Clint Eastwood con "Million Dollar Baby" (che vinse l'Oscar nel 2005), ma ci sono anche commedie come "È andato tutto bene" di Francois Ozon.
Il dibattito, ora, è politico ma impregnato di questioni etiche: "Su se stesso, sul suo corpo e la sua mente l'individuo è sovrano", scriveva nel 1859 il filosofo inglese John Stuart Mill. In molti però non la pensano così, per fede religiosa e non solo. Come i medici cattolici che puntano l'attenzione sulla mancanza di presa in carico dei pazienti incurabili. O come l'associazione Pro Vita & Famiglia, secondo cui, a rimetterci sono i più fragili.
La Toscana è la prima regione italiana a garantire ai malati tempi e modalità certi per l'accesso al suicidio medicalmente assistito.Dopo un lungo e acceso dibattito, il Consiglio regionale ha approvato, l'11 febbraio 2025, la legge di iniziativa popolare 'Liberi subito' depositata dall'Associazione Luca Coscioni in 15 Regioni. L'obiettivo della legge, che è stata poi impugnata dal governo, è evitare che i pazienti in attesa di un responso per mesi, muoiano prima di averlo ottenuto, come accaduto il 9 febbraio, proprio alla vigilia del via libera, a una donna di 70 anni, Gloria, affetta da broncopneumopatia cronica ostruttiva, originaria di Firenze, che da un anno attendeva l'ok della Asl alla somministrazione del farmaco letale.
La legge 'Liberi subito' è stata modificata dall'assemblea toscana tramite una dozzina di emendamenti e prevede che la procedura per la verifica dei requisiti del malato da parte della commissione si debba concludere entro 20 giorni dal ricevimento dell'istanza. In caso di esito positivo, si procede alla definizione delle modalità di attuazione della procedura entro 10 giorni, ed entro altri 7 giorni l'azienda sanitaria assicura il supporto tecnico, farmacologico e sanitario per l'assunzione del farmaco.
La norma stabilisce che tali prestazioni siano gratuite e stanzia 10mila euro all'anno per tre anni. "È una legge di civiltà perché impedisce il ripetersi di casi, da ultimo quello di Gloria, proprio in Toscana, di persone che hanno dovuto attendere una risposta per mesi, o addirittura per anni, in una condizione di sofferenza insopportabile e irreversibile", ha commentato la segretaria dell'associazione Filomena Gallo. Subito è insorta l'associazione Pro Vita che parla di "una legge barbara e disumana", "omicida e incostituzionale". E invita il governo "a impugnare immediatamente la legge toscana con un ricorso in Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato".
A votare a favore sono stati Pd (con l'eccezione della consigliera dem, Lucia De Robertis che non ha espresso voto) Iv, M5s e gruppo Misto. L'approvazione ha scatenato proteste nel centrodestra. "Questa materia non è di competenza legislativa delle Regioni", affermano i consiglieri regionali del gruppo di Fratelli d'Italia in una nota. La capogruppo della Lega, Elena Meini, è ferma: "Per noi la vita è sacra e rimane sacra. Non possiamo far passare il messaggio come istituzioni che si può scegliere di morire". Mentre il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, la definisce "una grave forzatura", per il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, "questo voto è una conquista che darà un impulso al legislatore nazionale".
La legge, promulgata il 14 marzo 2025, è stata impugnata dal governo italiano alla Corte Costituzionale. L'esecutivo, è stata la risposta della segretaria del Pd Elly Schlein, "volta le spalle a chi sta soffrendo".
La Sardegna è la seconda regione in Italia ad avere una legge sul fine vita. Dopo un dibattito che ha fatto emergere le divisioni tra gli schieramenti e all'interno degli stessi, il 17 settembre 2025, il Consiglio regionale, con 32 voti favorevoli, 19 contrari e un'astensione, ha votato il testo della maggioranza di campo largo, scritto sulla base di quello proposto dall'associazione Luca Coscioni.
La norma punta ad applicare procedure sui tempi per l'assistenza sanitaria al suicidio medicalmente assistito per effetto della sentenza della Consulta del 2019: garantisce l'assistenza sanitaria gratuita a chi, affetto da patologia irreversibile e dipendente da trattamenti vitali, sceglie autonomamente, ma le condizioni dovranno essere verificate da una commissione multidisciplinare e dal comitato etico territorialmente competente.
Nei due schieramenti anche voci contrarie alle rispettive linee di partito: in maggioranza ha votato contro Lorenzo Cozzolino (eletto con il Psi), mentre si è astenuto il vice presidente del Consiglio regionale Giuseppe Frau. Nel centrodestra è stato l'azzurro Gianni Chessa a votare "convintamente" a favore. "È una legge di civiltà e responsabilità istituzionale", ha commentato a caldo la presidente della sesta commissione Sanità del Consiglio, Carla Fundoni (Pd), tra le promotrici insieme al capogruppo del suo partito, Roberto Deriu. Ora, sottolinea Deriu, "abbiamo una regola chiara per una situazione estrema". "Una legge manifesto del campo largo nella speranza di blandire una fetta dell'elettorato - evidenzia il capogruppo Fdi, Paolo Truzzu -. Una legge inutile, che esula dalle competenze del Consiglio regionale e pertanto rischia di essere cassata dalla Corte costituzionale".
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"Ricordatemi come una donna che ha amato la vita. E, nel ricordarmi, non vi stancate mai di combattere, anche quando le battaglie sembrano veramente invincibili". Sono le parole dell'ultimo messaggio lasciato da Laura Santi, 50 anni, è morta a casa sua, nel capoluogo umbro il 21 luglio 2025 dopo essersi auto-somministrata un farmaco letale. Una doppia battaglia la sua, contro la malattia e contro i tribunali.
La giornalista perugina era affetta da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla "feroce" e considerava "intollerabili" le sue sofferenze. "Dopo anni di progressione di malattia e dopo l'ultimo anno di peggioramento feroce delle sue condizioni, le sue sofferenze erano diventate per lei intollerabili" sottolinea il marito Stefano, che le è sempre stato vicino anche negli ultimi anni di battaglia sul fine vita.
Laura, diversamente da altri, ha potuto morire (ieri ma la notizia è stata data oggi) senza ricorrere a quel viaggio in Svizzera che pure
aveva ipotizzato di fare. "Non potete capire - ha sottolineato Laura Santi - che senso di libertà dalle sofferenze, dall'inferno quotidiano che ormai sto vivendo". L'iter giudiziario per ottenere il suo obiettivo, però, è stato lungo. Dopo tre anni dalla richiesta iniziale, due denunce, due diffide, un ricorso d'urgenza e un reclamo, nel novembre 2024 ha ottenuto una relazione medica completa che attestava il possesso dei requisiti stabiliti dalla Corte costituzionale e a giugno 2025 la conferma dal collegio medico di esperti e poi del comitato etico sul protocollo farmacologico e delle modalità di assunzione. "Voglio avere una porta da aprire, sperando di non doverla aprire mai" ha più volte ripetuto.
Laura Santi ha lasciato una lettera di saluto. "Quando leggerete queste righe io non ci sarò più, perché avrò deciso di smettere di soffrire" ha scritto. Parlando di un "gesto finale che arriva nel silenzio e darà disappunto e dolore". Ha parlato di "una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce e in peggioramento continuo". "Ho avuto molto tempo - ha detto - anche per cambiare idea e rimandare la decisione. Mi sono consentita, in una situazione che ancora reggeva, di assaporare gli ultimi scampoli di vita e di bellezza. Di salutare ogni angolo, ogni luogo, ogni volto, ogni persona ogni situazione ogni cielo ogni colore, ogni minuscola passeggiata". Due giorni dopo la sua morte, la pubblicazione del videomessaggio ai parlamentari, che discutono sul disegno di legge sul fine vita: "Vi chiedo di essere umani".
Oggi, un malato terminale gravemente sofferente che vuole metter fine alla sua vita, per legge in Italia può iniziare una sedazione palliativa profonda, ovvero un trattamento farmacologico che porta all'annullamento della coscienza, in attesa che arrivi la morte. Se invece sceglie il suicidio assistito, gli ostacoli che può incontrare riguardano la burocrazia e i tempi o la mancanza di alcuni requisiti. Laura Santi è stata la decima paziente (dato aggiornato al 7 agosto 2025) ad averlo fatto in Italia. Mentre altre 5 hanno avuto il via libera ma hanno scelto di non procedere o non hanno potuto procedere. Tutte hanno affrontato battaglie giudiziarie nei tribunali.
Nel giugno 2022, Federico Carboni, 44enne di Senigallia, nelle Marche conosciuto durante la sua battaglia con il nome di fantasia 'Mario', è stato il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019, dopo quasi due anni dalla prima richiesta alla azienda sanitaria e dopo una lunga battaglia legale. La strumentazione per l’autosomministrazione del farmaco è stata acquistata tramite una raccolta fondi organizzata dall'Associazione Luca Coscioni.
Nel luglio 2023, 'Gloria' (nome di fantasia), donna veneta di 78 anni, paziente oncologica, è stata la seconda italiana ad accedere al suicidio medicalmente assistito e la prima ad aver ricevuto il farmaco letale e la strumentazione da parte della ASL competente. Anche nel suo caso, l’assistenza medica è stata prestata dal dottor Mario Riccio, anestesista di Welby e medico di fiducia di Federico Carboni. L’azienda sanitaria veneta, nel valutare la presenza dei requisiti per l’accesso al “suicidio assistito” di “Gloria”, ha considerato i farmaci antitumorali mirati come trattamento di sostegno vitale.
La prima italiana ad aver completato la procedura prevista con l’assistenza diretta del Servizio sanitario nazionale, ma solo un anno dopo la domanda effettuata, è stata Anna, una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla progressiva, morta il 28 novembre 2023 a casa sua, a Trieste. Queste le sue parole: "Ho amato con tutta me stessa la vita, i miei cari e con la stessa intensità ho resistito in un corpo non più mio”.
Serena, invece, primo caso in Lombardia, è morta a gennaio 2025, a casa sua, autosomministrandosi, con l'aiuto del medico Mario Riccio, un farmaco letale fornito dal servizio sanitario. Aveva 50 anni ed era affetta da sclerosi multipla progressiva da oltre 30 anni. "Ho affrontato la mia disabilità con rispetto e dignità. Quando però cominci a sentire la sofferenza oltre a quella fisica ma dentro l’anima, capisci allora che anche la tua anima deve avere il diritto di essere rispettata con la dignità che merita", ha lasciato scritto Serena. La sua è stata una corsa a ostacoli durata 9 mesi.
Quindi di è stata la volta di 'Vittoria', Daniele Pieroni, Laura Santi e di altri tre di cui non si hanno i dettagli. La prossima a poterlo fare potrebbe essere Ada.
Ada, inizialmente conosciuta come "Coletta", con un videomessaggio aveva deciso di uscire dall'anonimato, raccontando la propria situazione. A leggere le sue parole, la sorella Celeste poiché Ada, colpita dalla sla dnel 2024, non riesce più a parlare. "In meno - sono le sue parole - di 8 mesi la malattia mi ha consumata. Con una violenza fulminea mi ha tolto le mani, le gambe, la parola. La vita è una cosa meravigliosa finché la si può vivere e io l'ho fatto. Mi sono rivolta alla mia Asl, coinvolgendo anche il tribunale, chiedendo ora quella libertà per me stessa: poter scegliere una vita dignitosa e una morte serena, vicino alla mia famiglia, nel mio Paese, quando la mia condizione diventerà definitivamente insopportabile. Ho intenzione di combattere per questo diritto finché ne avrò le forze".
Ada, infatti, dopo aver ricevuto dalla propria azienda sanitaria il diniego al suicidio assistito, ha dovuto presentare un ricorso d'urgenza al tribunale di Napoli. Il 7 ottobre, dopo una nuova verifica delle condizioni di salute, la Asl ha dato il via libera: se e quando e se lo vorrà potrà quindi procedere con l'aiuto alla morte volontaria. Questo è stato il suo commento: "La sla ha perso, io ho vinto. Quando ho letto le parole 'parere favorevole', ho sentito un peso scivolare dalle mie spalle. Non trascorrerò nemmeno un minuto in più ad avere paura di ciò che può farmi. Da oggi sono legalmente padrona della mia vita e del mio corpo".
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"Fate una legge sensata", chiedeva Martina Oppelli. "Mettiamo da parte le diatribe politiche: non esiste destra, sinistra o centro, siamo tutti esseri umani". Il suo appello per una norma chiara sul fine vita è rimasto inascoltato. E così, non potendo più attendere un quarto diniego all’accesso al suicidio medicalmente assistito, ha scelto la Svizzera per mettere fine a sofferenze ormai insostenibili. È morta il 30 luglio, a 50 anni, dopo un lungo viaggio affrontato nonostante la sclerosi multipla da cui era affetta da oltre vent’anni.
Malata di sclerosi multipla da oltre 20 anni, l'ASL le ha negato 3 volte il suicidio assistito, in Svizzera Martina è stata supportata da Claudio Stellari e Matteo D’Angelo di Soccorso Civile, insieme ad altre 31 persone che ne hanno aiutato il viaggio e l’assistenza. Avrebbe però voluto morire nella sua casa di Trieste, come ha potuto fare Laura Santi – anche lei 50enne, anche lei malata di sclerosi multipla – appena dieci giorni fa a Perugia, grazie all'accesso al suicidio assistito previsto dalla legge e concesso dalla sua Asl.
Ma per Martina la strada si è rivelata molto più tortuosa. La sua prima richiesta formale risale ad agosto 2023: respinta. Altre due sono seguite, anche con il sostegno legale della Coscioni. Il 4 giugno è arrivato il terzo rifiuto: l’Asl ha stabilito che Martina non era sottoposta a trattamento di sostegno vitale, nonostante fosse totalmente dipendente da caregiver e da dispositivi medici come catetere, farmaci e macchina per la tosse.
Il 19 giugno, con l’assistenza dell’avvocata Filomena Gallo, Martina ha presentato opposizione e una diffida. Una nuova valutazione era in corso, ma il tempo era finito. “Le sofferenze non erano più tollerabili”, ha detto lei stessa in un ultimo video registrato in Svizzera, in cui spiegava di essersi sentita “costretta a lasciare l’Italia per morire dignitosamente”.
L'appello ricalca quello lanciato più di un anno fa: un richiamo a parlamentari e cittadini perché si possa approvare una "legge sensata che regoli il fine vita". Basta rinvii, basta essere "rimandati a settembre", "perché ci sono urgenze più grandi". Ogni dolore "va rispettato". "In questi ultimi due anni - dice Martina - il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, perfino i comandi vocali non mi capiscono più. Ho anche il catetere vescicale". "La fine di Martina Oppelli in Svizzera è una sconfitta per le nostre istituzioni, l'abbiamo lasciata sola. Le sue ultime parole pacate pesano come pietre", sono state le parole della dem Debora Serracchiani.
In condizioni simili a Martina si trovava Massimiliano, 44enne toscano di San Vincenzo (Livorno) affetto da sclerosi multipla, accompagnato in Svizzera per poter ricorrere al suicidio medicalmente assistito nel 2022 da Felicetta Maltese, Marco Cappato e Chiara Lalli. Sul caso di Massimiliano, e altri come il suo, ovvero che presentano tutti i requisiti per accedere al suicidio assistito ma non dipendono da trattamenti di sostegno vitale (come la ventilazione meccanica), la Corte Costituzionale si è espressa nuovamente, il 18 luglio 2024, allargando le maglie di chi può accedere al suicidio assistito.
Essere totalmente dipendente da altri per sopravvivere, come lo era Massimiliano, equivale o no a un trattamento di sostegno vitale? La risposta della Consulta, in sintesi è: dipende. Nella sentenza 135/2024, infatti, i giudici della Corte hanno confermato i paletti messi nel 2019, aumentato la platea e indicato che sarà il giudice nella sua autonomia a valutare. "Non abbiamo ottenuto - aveva detto all'epoca Marco Cappato - il riconoscimento pieno del diritto a morire anche a persone non dipendenti da sostegno vitale. Ma la Corte fa passi avanti importanti nell'inerzia assoluta o l'ostilità della politica". Ma non è bastato a Martina: "Ho tolto il disturbo",ha scritto alla sua Asl prima di partire per la Svizzera, lasciandogli anche una denuncia per tortura.
Quale è il problema che spinge ancora alcuni a cercare la morte fuori dal proprio Paese di residenza? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro. In assenza di una legge nazionale, in Italia questa scelta è normata dalla Corte costituzionale, che ha legalizzato l’accesso alla procedura, ma solo a precise condizioni.
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Prosegue in Parlamento il tentativo di approvare una legge nazionale sul fine vita. Dopo anni di attesa, dibattiti e pronunce giuridiche, le commissioni riunite Giustizia e Sanità del Senato hanno approvato il testo base del disegno di legge, con il voto contrario delle opposizioni. I relatori hanno depositato una serie di emendamenti molto restrittivi, che prevedono in sostanza l'estromissione del Servizio Sanitario nazionale dalle procedure.
Il testo base, approvato con il solo voto della maggioranza, mira a dare attuazione alla sentenza n. 242/2019 della Consulta, che aveva aperto la strada alla non punibilità dell’aiuto al suicidio in presenza di condizioni ben definite. I requisiti includono quelli previsti dalla Consulta (la maggiore età, una malattia irreversibile, sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, la capacità di prendere decisioni autonome e la dipendenza da trattamenti sanitari specifici) con due aggiunte: i pazienti devono essere inseriti in un programma di cure palliative e la loro volontà deve esser verificata da un Centro nazionale di valutazione.
Con gli emendamenti proposti dai relatori, Pierantonio Zanettin di Forza Italia e dal meloniano Ignazio Zullo, la maggioranza diluisce ancora i tempi dell'esame che è in corso da un anno. Nella nuova versione dei relatori, la valutazione dei requisiti sulle richieste di fine vita spetta al Centro di coordinamento nazionale, dopo il parere dei comitati etici locali. Tutti organismi già esistenti ma il doppio vaglio allunga di un mese i tempi per dare risposta ai malati, cioè entro 5 mesi.
Poi resta il nodo cruciale: per la maggioranza, il trattamento non può essere una prestazione garantita dalla sanità pubblica. Né con i suoi medici né con i macchinari e nemmeno con i farmaci. Tutti e tre - scandisce uno dei nuovi emendamenti al testo - "non possono essere impiegati per agevolare l'esecuzione del proposito suicidario". E si ribadisce anche il no all'eutanasia, chiarendo che "in nessun caso la legge riconosce alla persona il diritto a ottenere aiuto a morire".
Il rischio, secondo molti osservatori, è che si stia creando una legge che finirebbe per lasciare le persone più vulnerabili senza tutele e senza alternative. Secondo Cittadinanzattiva, si tratta di una “fuga dallo Stato, che esercita il potere ma non si assume la responsabilità”. Il presidente della Fnomceo (Federazione degli Ordini dei Medici) Filippo Anelli, pur sottolineando il valore del principio della dignità personale, ha criticato il mancato coinvolgimento pieno del Servizio sanitario: “Escludere il servizio pubblico dalla fase attuativa rischia di creare disuguaglianze, soprattutto per i meno abbienti”.
Netta la posizione degli anestesisti, 'preoccupati per un ddl inadeguato'. La struttura del testo "è inadeguata e fragile" e rischia di "privatizzare un momento critico" come il fine vita. A scriverlo è la Società di Anestesia e Terapia Intensiva (Siaarti) e la Società di Cure Palliative (Sicp) che ritengono urgente un "ripensamento dell’intero impianto normativo".
Le due Società scientifiche ribadiscono che una legge su un tema così delicato "non può prescindere dalla prossimità, dalla tutela della dignità e dell’autodeterminazione della persona malata". Il testo in esame, pur dichiarandosi attuativo della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, "non ne rispetta il dettato sostanziale e si allontana dalle esperienze maturate nei contesti di cura".
Preoccupa in particolare l’esclusione del Servizio Sanitario Nazionale dall’attuazione della procedura: "Una simile scelta rischia di privatizzare un momento così critico, lasciando la persona sola, priva di garanzie cliniche ed economiche, e consegnando a logiche esterne alla sanità pubblica un atto di estrema delicatezza". Altrettanto "critico" è "l’affidamento della decisione finale a un organismo centrale, distante, nominato politicamente e privo di relazione diretta con il paziente".
Mentre al Senato prosegue l'esame del disegno di legge sul fine vita - secondo il timing concordato tra i gruppi e rinviando a settembre il voto degli emendamenti - il 30 luglio è stata 'incardinata' la proposta di legge dell'associazione Coscioni, quella di iniziativa popolare che chiede di legalizzare tutte le scelte di fine vita, compresa l'eutanasia attiva. Sostenuta da oltre 70 mila firme raccolte, la proposta affianca il testo base voluto dalla maggioranza e al vaglio delle commissioni Giustizia e Sanità. La nuova Pdl prevede che il servizio sanitario nazionale si faccia carico della verifica delle condizioni del paziente entro 30 giorni dalla richiesta, con la possibilità per i medici di partecipare su base volontaria.
Come per la maggior parte delle questioni bioetiche le posizioni sono trasversali agli schieramenti politici. Sul tema c'era stata anche l'apertura di Marina Berlusconi, a marcare la necessità di un'evoluzione di Forza Italia in tema di diritti civili: "Penso - ha detto presidente di Fininvest - che chi è afflitto da una malattia incurabile e dolorosa debba avere il diritto di porre fine alla propria esistenza con dignità, ovviamente sulla base di una decisione presa in totale libertà e consapevolezza".
Ad intervenire, chiedendo di velocizzare l'iter era stato lo stesso il ministro della Giustizia Carlo Nordio: "La Corte Costituzionale su questo tema sembra camminare in modo più veloce e in modo più pragmatico rispetto al Parlamento". Parole che sintetizzano la difficoltà di arrivare a un accordo politico su un tema che riguarda il rapporto di ciascuno con la propria vita e la propria morte.
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La prima richiesta di aiuto al suicidio che è arrivata è stata quello di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, un ragazzo che, come tanti, nel ritornare una sera a casa, ha un incidente e si risveglia cieco, tetraplegico, con una vita completamente cambiata. "Ha fatto di tutto per curarsi, ha provato tutte le terapie possibili. Poi a sua madre e alla sua fidanzata comunica che per lui quella non era vita. Chiede di poter accedere all’eutanasia in Svizzera, ma per raggiungere la Svizzera aveva bisogno di un aiuto", spiega Filomena Gallo, avvocata cassazionista e segretaria dell'associazione Luca Coscioni.
Marco Cappato, pur sapendo che nel nostro Paese l'aiuto al suicidio è un reato previsto dal Codice penale e per il quale si rischiano fino a 12 anni di carcere, ha aiutato Fabiano ad arrivarci e poi si è autodenunciato. "In quel caso la Corte d'Assise di Milano ha sollevato il dubbio di legittimità costituzionale dell'articolo 580 del Codice penale (che avrebbe visto la condanna di Cappato) perché quell'articolo non garantisce ai cittadini la libertà individuale e di scelta. I giudici della Corte costituzionale sono intervenuti con una sentenza che ha dichiarato incostituzionale una parte dell'articolo e ha dato anche le indicazioni affinché l’aiuto al suicidio non sia considerato reato nel nostro ordinamento".
La persona che chiede di essere aiutata a morire deve formulare una richiesta al Servizio Sanitario Nazionale, questo invierà una commissione di verifica per accertarsi che siano presenti tutte e quattro le condizioni necessarie a che l’aiuto al suicidio non costituisca un reato. "Ovvero - precisa l'avvocata - il paziente deve essere pienamente capace di autodeterminarsi; deve essere affetto da una patologia da cui non è possibile guarire e che determina una sofferenza che lui avverte come intollerabile; e deve esser dipendente da un sostegno vitale. Solo se si verificano tutte e quattro queste condizioni si può accedere al suicidio medicalmente assistito. Questo fa sì che alcuni optino per la via più breve (e costosa), ovvero un viaggio per ottenere la morte in Svizzera.
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Le persone che fanno richiesta per ottenere il suicidio medicalmente assistito devono attendere che le asl e i Comitati Etici territoriali svolgano le previste verifiche delle condizioni, iter che oggi richiede mesi, a volte anni. Per far sì che i pazienti abbiano tempi certi e rapidi di risposta, le regioni hanno iniziato a fare per conto proprio. Ecco perché siamo arrivati al caso del Governo che ha impugnato davanti al Tar il regolamento dell’Emilia-Romagna e all'approvazione, in Toscana, della prima legge regionale che assicura tempi certi ai cittadini che fanno ricorso al suicidio assistito.
Sulla necessità di fornire tempi certi e brevi è intervenuto anche il leghista Luca Zaia, annunciando l'arrivo di una circolare nella regione da lui governata, il Veneto. "Ogni regione agisce in modo diverso. Un tempo che molti pazienti non hanno. Non deve più essere consentito di far attendere fra sofferenze intollerabili e condizioni che peggiorano con il rischio di perdere le ultime forze necessarie per l’autosomministrazione del farmaco letale”, dichiara Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. Di qui la campagna regionale “Liberi subito”, cioè, spiega il coordinatore Matteo Mainardi, "una raccolta firme per presentare proposte di legge regionali affinché ci sia un modo uniforme di procedere in tutte le regioni e tempi di attesa che non devono superare i 20 giorni. Grazie alle firme raccolte la proposta è stata già depositata in 15 Regioni”. Dopo la Toscana, che ha approvato per prima in Italia la pdl 'Liberi Subito' sul fine vita, sono dieci le Regioni in cui si attende la discussione della legge. In Valle D'Aosta, Lazio, Campania, Sardegna, Abruzzo, Liguria, Sicilia è depositata in attesa di inizio iter; depositate proposte simili in Calabria, Puglia, Marche.
Ha fatto rumore il caso del Veneto, dove la legge, pur appoggiata dal governatore Luca Zaia, ha visto la spaccatura della maggioranza e non è passata per un voto: Fratelli d'Italia e Forza Italia, grazie anche ad una defezione nel Pd, hanno fatto valere il loro veto. Proprio Zaia, in un'intervista al Corriere della Sera, commentando la prima legge regionale sul fine vita approvata dalla Toscana ha detto: "Sul fine vita la grande ipocrisia di questo Paese è far finta che le norme non ci siano". Invece, ha proseguito, "in Italia il fine vita è normato da una sentenza". Tuttavia "la sentenza non dice due cose: i tempi entro cui deve arrivare una risposta e chi deve gestire e somministrare il farmaco". Per questo ha poi aggiunto, "stiamo lavorando a un regolamento di applicazione della sentenza della Corte costituzionale".
Ad aprire è stato poi anche il ministro della Salute Orazio Schillaci: "Arrivare ad una legge nazionale sul fine vita, per dare certezza ai cittadini ed evitare che le Regioni ed i tribunali procedano in modo differenziato su una tematica estremamente delicata. Una richiesta che arriva da varie forze politiche. I tempi sono giusti e maturi - ha affermato - per una legge buona per tutti". Ma al momento la questione è tutt'altro che definita.
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Vittorio Parpaglioni, ha 25 anni e oggi rischia fino a 12 anni di carcere per aver accompagnato la madre in Svizzera. Nelle pieghe della sentenza è rimasta infatti incastrata sua madre, Sibilla Barbieri, regista e attrice romana di 58 anni, volto noto della tv, malata terminale oncologica.
"Io e mia madre - racconta - siamo partiti a ottobre per andare in Svizzera: lei era una malata oncologica ormai con nessuna speranza di vita, assumeva morfina ma questo non bastava ad alleviare il suo dolore. Tre mesi prima aveva chiesto il suicidio assistito, ma a causa della decisione della ASL Roma 1, le era stata negata la possibilità di morire a casa sua perché non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale. Quindi siamo dovuti partire per Zurigo. Io ho scelto di accompagnarla in questo viaggio".
Un viaggio in aereo e pullman di cinque ore, che, spiega, è stato estremamente faticoso per Sibilla, malata terminale che nel frattempo aveva dovuto far ricorso anche all'ossigeno. "Era in condizioni in cui una persona normale avrebbe fatto anche fatica solo ad alzarsi dal letto, negli ultimi giorni non riusciva più a parlare. Quel viaggio è stato un dolore aggiuntivo rispetto alla morte stessa. È stato un esilio forzato. Non era giusto che lo facesse", racconta con voce commossa ma ferma.
L'insegnamento più grande che Sibilla gli ha lasciato, dice, “è un grande coraggio di vedere la verità. Lei ha ammesso una delle cose più difficili: la propria morte. Questo non ha chiuso delle porte ma ha aiutato ad aprirne altre alle persone che le volevano bene e che lei lasciava, perché ci ha aiutato a capire cosa fare". Questo percorso ha fatto in modo tale che Vittorio e la sorella fossero in qualche modo preparati: "ci ha accompagnati verso il lutto per la sua dipartita, si può soffrire anche insieme alla persona che sta per andarsene e questo ci ha aiutato nell'affrontare la sua mancanza".
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Sul tema la Santa Sede è sempre stata ferma. Come spiegato anche da Papa Francesco: "la morte va accolta, non somministrata". “L'eutanasia è un crimine contro la vita". Sì, quindi, alle cure palliative, no all'aiuto al suicidio. Da qui muove uno dei disegno di legge presentato in Senato, quello del senatore di Forza Italia Adriano Paroli.
"La vita è un diritto e un valore a prescindere, mentre non è un diritto la morte. Per questo non condividiamo nessuna norma che autorizzi a togliere o togliersi la vita, altrimenti come vediamo all'estero, si arriva all'eutanasia dei bambini", precisa Paroli. "Comprendo che l'angoscia di ricevere una diagnosi che non dà scampo e che porta sofferenze faccia pensare che sia meglio farla finita. Il legislatore deve tutelare i pazienti ma anche i valori. E il vero argomento è se possiamo decidere della vita nostra o di un altro. Noi crediamo di no. Dobbiamo accompagnare al meglio alla morte, ma non provocarla".
"C'è una drammatica mancanza di assistenza a domicilio nel fine vita. Le persone spesso si trovano ad affrontare questo momento in stato di grande solitudine e l'alleanza medico-paziente è sempre più rara". A denunciarlo è il presidente nazionale dell'Associazione dei Medici Cattolici Italiani (Amci), Filippo Maria Boscia. Specializzato in ginecologia, con 55 anni di esperienza, all'Eutanasia contrappone "la eubiosia, ovvero una vita serena, nel rispetto della dignità del malato terminale. Perché - spiega all’ANSA - l'isolamento, il sentirsi un peso per gli altri, sono i fattori più importanti che portano a volerla far finita: la sfida è una vera presa in carico del malato che si trova in queste condizioni".
Un medico, in sostanza, non abbandona il paziente ma non fa accanimento. “Quando è il momento deve anche 'lasciar morire', ma questo – spiega - è diverso dal far morire. Il difficile equilibrio tra queste due strade si trova nella proporzionalità delle cure ed è a volte difficile capire dove sta questo limite, che deve essere affidato alla coscienza e responsabilità dei medici".
Non si può invece chiedere al medico il dovere di aiutare qualcuno a morire perché “se ne snatura la figura e va anche contro quanto espressamente previsto nel Giuramento di Ippocrate: il medico è chiamato a curare e prendersi cura, anche quando per il paziente non ci sono speranze. Odio la definizione di ‘paziente terminale’. Mio padre a 82 anni, con diagnosi di neoplasia metastatizzata, fu congedato da un illustre collega che mi disse: portalo a casa perché non c'è più nulla da fare. Mio papà – racconta - è vissuto 14 anni dopo questa aspra sentenza", precisa Boscia. Proprio quando non c’è più nulla da fare è lì che inizia il vero accompagnamento, “è lì che percorsi di eubiosia devono contrastare l’eutanasia”.
Fra medico e paziente deve stabilirsi un'alleanza, che oggi è svanita. "I servizi di assistenza domiciliare di supporto non sono universalmente presenti – continua Filippo Boscia - così chi sta percorrendo le sue ultime miglia non ha cure adeguate. E non alludo solo alle cure palliative per il dolore, ma alla presa in carico, al dialogo, al prendere per mano per aiutare a oltrepassare il confine con serenità". E alla domanda se ha mai avuto qualche paziente che gli aveva chiesto come farla finita, il presidente dei medici cattolici risponde: "Certo! Ma ho sempre cercato di offrire ascolto e ho affrontato soprattutto la sofferenza morale. Nella nostra società ci siamo molto dedicati a curare sintomi e organi, ma poco o nulla abbiamo fatto per la cura integrale della persona, per la sofferenza mentale e per adeguate reti di supporto. Di conseguenza c'è il rischio anche che possano essere esercitate pressioni sul paziente in stato di fragilità da parte di familiari schiacciati da problemi come i costi e gli impegni lavorativi".
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Diverso dal suicidio assistito è il testamento biologico, su cui il parlamento è riuscito ad approvare una legge, frutto di un lungo dibattito e di una drammatica vicenda. Dal caso Englaro è, infatti, scaturita la legge del 2017, che permette di lasciare indicazioni sulle proprie volontà sulle cure a cui venire sottoposti, qualora in futuro non si fosse più in grado di scegliere.
Era il 18 novembre del 1992 quando Eluana, al ritorno da una festa, perse il controllo dell'auto di cui era alla guida. Aveva 21 anni e l'incidente la riduce in coma irreversibile. Il padre Beppino Englaro, convinto che la figlia non avrebbe voluto vivere in questo stato, presenta la richiesta di sospensione dell’alimentazione artificiale per la figlia, che viene respinta. Quasi 17 anni più tardi, dopo la mobilitazione e i presidi organizzati da Marco Pannella e i Radicali, il 9 febbraio 2009, ad Eluana vengono sospese alimentazione e idratazione, e lei viene liberata dallo “stato vegetativo permanente”. Quindici anni dopo, la Corte dei Conti ha condannato in appello l'ex direttore generale della Sanità della Lombardia a pagare all'erario 175 mila euro che la Regione aveva dovuto risarcire al padre, Beppino Englaro, costretto a trasferire la figlia in una struttura sanitaria in Friuli dove morì. Fu una "concezione personale ed etica del diritto alla salute", scrive la Corte dei Conti, a impedire che ad Eluana fosse interrotto il trattamento che la manteneva in stato vegetativo.
Nel 2013 i Radicali italiani e l'associazione Luca Coscioni hanno raccolto 130mila firme (ora arrivate a oltre 1,2 milioni) per una proposta di Legge di iniziativa Popolare per la legalizzazione dell'eutanasia. Le firme sono state depositate presso la Camera dei deputati ma una vera discussione sull'eutanasia non c'è stata. Quello che ne è scaturito, però, è stata la legge 219/2017 sul testamento biologico, che permette di lasciare scritte le proprie volontà rispetto ai trattamenti a cui in futuro potrebbe esser sottoposto in caso di grave malattia. Una possibilità però ancora poco conosciuta anche per la mancanza di informazione istituzionale: tanto che nel 2023, a 5 anni dalla legge, era stato depositato solo dallo 0,4% degli italiani. Di qui la recente mobilitazione lanciata in oltre 100 città italiane.
Il biotestamento però risolve solo una parte del problema. Per questo Mina Welby, Marco Cappato e Gustavo Fraticelli, nel 2015, fondarono l'associazione Soccorso Civile, dichiarando l'intenzione a contribuire con atti di disobbedienza civile a che le scelte di tutti i malati potessero essere rispettate.
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Suora francescana per 20 anni, origini altoatesine, accento tedesco. Mina conobbe Piergiorgio al Sert dove lei prestava servizio, si sposarono nel 1978 a Roma, nella parrocchia di Garbatella. Oggi ha 87 anni, un sorriso accogliente e continua a fare quello che le è sempre venuto bene: aiutare gli altri. Era il 2006 quando Piergiorgio Welby, giornalista e attivista affetto da distrofia muscolare - malattia che causa l'atrofia progressiva della muscolatura scheletrica – tracheostomizzato e attaccato a un respiratore, scrisse una lettera al Presidente della Repubblica, chiedendo di poter morire. Giorgio Napolitano rispose che era un tema che deve essere affrontato con una legge: siamo nel 2024 e ancora non c'è. Nello stesso anno, dopo 88 giorni, dopo aver ricevuto il diniego del tribunale di Roma, veglie organizzate in 50 città e un acceso dibattito pubblico, Piergiorgio venne sedato e staccato dal respiratore, sulle note di Bob Dylan con l’aiuto dell’anestesista Mario Riccio che eseguì la volontà del paziente subì per questo un processo, conclusosi nel 2008 con un'assoluzione.
Le ultime parole che Mina ha detto al marito: "scusa se ti ho tenuto con me più di quanto tu avessi voluto". Piergiorgio le risponde chiedendole di portare avanti il suo blog. Lei in realtà ha fatto molto di più in questi anni: come copresidente dell'associazione Luca Coscioni ha partecipato a banchetti, fiaccolate e raccolte firme per la legge di iniziativa popolare fino all’accompagnamento in Svizzera.
Tra i fondatori dell'associazione Soccorso civile, nel 2017 ha accompagnato Davide Trentini a Zurigo, aiutandolo nel disbrigo di procedure burocratiche. “Davide – spiega Mina - era malato di sclerosi multipla dal 1993. Aveva 53 anni e la sua vita era diventata un calvario, era pieno di dolori ovunque. Per questo ha chiesto di accedere alla morte volontaria in Svizzera, siamo partiti insieme ad aprile 2017, fu un viaggio di 5 ore ma drammatico, in cui dovemmo fermarci 7 volte per i disagi che gli provocava. Poco prima che il farmaco letale venisse iniettato Davide mi disse: vado in vacanza. Io gli feci un ultimo sorriso”.
Al ritorno, insieme a Marco Cappato Mina si è autodenunciata alla Procura di Massa. Nel 2021 sono stati assolti dalla Corte d’Assise di appello di Genova perché, a seguito della decisione della Consulta sul caso Cappato/Fabo, l'aiuto fornito non configurava reato.
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Come spiegato anche da Papa Francesco: "la morte va accolta, non somministrata". Questa è anche la posizione di Pro Vita & Famiglia onlus. "La vita va difesa anche quando c'è sofferenza e oggi abbiamo cure palliative che permettono di togliere il dolore. Negli ultimi anni abbiamo visto invece un susseguirsi di colpi di mano che hanno indebolito il senso del dono della vita". A spiegarlo è Francesca Romana Polelli, membro del consiglio direttivo di Pro Vita & Famiglia, che si è distinta per campagne di sensibilizzazione contro l'eutanasia che hanno fatto molto rumore. "C’è il rischio, se si continua su questa strada, - aggiunge - di arrivare a una deriva in cui si tende a eliminare il debole, il fragile, quello che può rappresentare un peso per una società che vuole tutto perfetto e performante. Come si è visto nel caso di Terry Schiavo, che divise gli Stati Uniti".
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Il fine vita, non è solo una questione medica, ma è anche etica. La difficoltà di trovare una soluzione si riflette anche nel parere espresso dal Comitato nazionale di bioetica (Cnb), che svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni. Il Comitato nazionale di bioetica, chiamato in causa dal Ministero della Salute, si è diviso in merito alla questione del suicidio assistito e sulla definizione dei Trattamenti sanitari di sostegno vitale (Tsv), uno dei requisiti essenziali per poter richiedere ai comitati etici territoriali l'aiuto per il suicidio medicalizzato. Il Cnb ha infatti espresso un parere di maggioranza ed uno di minoranza rispondendo al quesito del Comitato etico della Regione Umbria "circa i criteri da utilizzare per distinguere tra ciò che è un trattamento sanitario ordinario e ciò che debba essere considerato un trattamento Tsv".
Nel parere di maggioranza approvato a luglio si ritiene che i Trattamenti sanitari di sostegno vitale "debbano costituire una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali, e che la loro sospensione comporti la morte del paziente in tempi molto brevi". In sostanza, vengono considerati esclusivamente 'di sostegno vitale' come quei trattamenti in cui l'individuo è attaccato ad una macchina per poter sopravvivere.
Opposto il contenuto del parere di minoranza, che vede tra i firmatari Lorenzo D'Avack, già presidente del Cnb ed attualmente membro del Comitato. "L'interpretazione data dei Tsv dal parere di maggioranza - afferma D'Avack - determina una discriminazione tra i malati. Nel parere di minoranza si ritiene invece che i Tsv non siano solo quelli riconducibili all'azione di un dispositivo meccanico, ma anche altri trattamenti sanitari in assenza dei quali il soggetto andrebbe comunque verso il decesso ma in tempi più lunghi".
Il tema è stato affrontato anche dal Cortile dei Gentili, una commissione di studiosi di diverse discipline con una pluralità di visioni etiche che mira a costruire un dialogo tra credenti e non credenti, e a produrre documenti che offrano un contributo alla discussione pubblica e politica. Nella pubblicazione “Dialogo sul suicidio medicalmente assistito”, Luciano Orsi, medico specialista in anestesia e rianimazione, interviene su un tema centrale: "Le richieste di assistenza medica per porre fine alla propria vita non sono solo e sempre una conseguenza della carenza di offerta di cure palliative. È vero che in Italia c’è una carenza e una disomogeneità dell’offerta di cure palliative e bisogna lavorare per colmare questo divario. Tuttavia, non possiamo aspettare che questo problema sia risolto prima di farci carico delle persone che desiderano abbreviare la parte finale della loro esistenza indipendentemente dalla disponibilità di cure palliative".
Va oltre, Eugenio Mazzarella, professore ordinario di filosofia teoretica presso l'Università Federico II di Napoli, anche lui membro del Cortile dei Gentili, che riflette sulla differenza tra suicidio assistito (chi ne fa richiesta è grado di compiere l’ultimo gesto: assumere il farmaco o “premere il pulsante” che attiva la sua somministrazione) e l’eutanasia (la situazione in cui l’ultimo gesto è compiuto da altri): "Non credo che tra i due atti ci sia una differenza di ordine morale. Quello che veramente conta è la volontà del soggetto. Dirò di più, anche se il diretto interessato fosse in grado fisicamente di compiere l’ultimo gesto, nel senso di attivare in proprio sofisticate strumentazioni ma chiedesse a un’altra persona di farlo al suo posto, dovrebbe essergli consentito. È una questione di pietà umana".
Quanto a chi obietta che legalizzare l’eutanasia sarebbe pericoloso, che aprirebbe la strada alla possibilità di eliminare i sofferenti e i fragili anche contro la loro volontà, il filosofo Mazzarella aggiunge: "ovviamente la legge dovrebbe porre dei limiti chiari all’esercizio dell’eutanasia così come del suicidio assistito per prevenire abusi di questo tipo. D’altra parte, la cosiddetta deriva eutanasica è già in atto nella nostra società. Di fatto, alcune vite sono discriminate rispetto ad altre nel momento in cui si tolgono fondi alla sanità pubblica e si limita l’accesso alle cure a chi non ha le risorse economiche per pagarle di tasca propria".
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La Toscana è stata la prima Regione ad approvare una legge, grazie alla quale verranno garantiti ai malati tempi e modalità certi per l'accesso al suicidio assistito, seguita dalla Sardegna. In Senato un muro di polemiche ha accolto il testo base del ddl approvato dalla maggioranza. Mentre sono finora nove le persone che hanno potuto accedere a questa procedura medica in Italia, continuano i viaggi per ottenerla all'estero, in ultimo quello di Martina Oppelli.
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